Su “Gli oscillanti” di Claudio Morandini (Bompiani)
Questa recensione è uscita su TTL-La Stampa
È un mondo sul punto di sprofondare quello in cui ci immerge il nuovo romanzo di Claudio Morandini, Gli oscillanti. Così vengono chiamati gli abitanti del piccolo e particolarissimo paesino di Crottarda: immerso nella parte sempre in ombra di una vallata, gelido, forse prossimo a crollare perché costruito su doline e cunicoli. E i pochi, stravaganti personaggi che lo popolano oscillano tra umano e non umano, tra vivo e non vivo.
O così pensa la narratrice e protagonista, che rievoca in prima persona, ma senza rivelarci il nome, le sue avventure in quel luogo bizzarro. Ci andava con i genitori già da bambina, ma solo lei, durante la notte, sentiva canti e richiami misteriosi, forse prodotti da pastori isolati per scambiarsi informazioni: una conferma non era mai arrivata e perciò, da giovane corsista universitaria, la donna torna per una ricerca di etnomusicologia. Altri studiosi avevano già tentato di afferrare qualche costume o caratteristica di quel luogo, e tuttavia questo aspetto era stranamente sfuggito.
Presto però cominciano le difficoltà. I crottardesi si presentano subito come duplici: accoglienti ma burloni, disposti a fornire molte informazioni, che puntualmente si rivelano false, spesso minacciosi dietro una facciata bonaria. A poco a poco si svela una lunga tradizione di lotte e sfide, specie con gli odiatissimi paesani di Autelor, Quelli Là, soprastanti e baciati dal sole, sfacciatamente felici e insensibili alla condizioni di Quelli Laggiù. Un’opposizione quasi tribale, anteriore al tempo in cui si svolge l’azione, più o meno contemporaneo: se ha un senso parlare di tempi precisi in un romanzo che li confonde volutamente.
Un po’ alla volta la narratrice comincia a non rendersi ben conto se i fatti che le sembrano sicuri sono accaduti o sono residui di sogni e incubi, se i luoghi visitati e le persone viste si collocano in un periodo o in un altro. Oscilla lei stessa tra evidenza e fantasie. Prova a chiedere conforto a una giovane ragazza che condivide con lei una stanza in una minuscola pensione: Bernardetta però è figlia di quei luoghi, selvaggia, imprevedibile, forse sincera ma poi sfuggente. È lei comunque a condurla in territori intricati, agli alpeggi prima, ma poi verso le doline, le grotte dove addirittura potrebbero aggirarsi le anime dei defunti di Crottarda, mai sepolti in un cimitero pubblico.
La ricerca si fa sempre più affannosa e nella seconda parte del libro raggiunge i suoi vertici più intensi. La protagonista incontra Fausto, uno speleologo molto concreto e umanamente a lei simile, che dopo un’esplorazione confessa di aver visto e sentito un’ombra che si aggirava in una delle tante grotte. Sembra la conferma che entità nascoste, e non semplici pastori, cantano a Crottarda, e il loro canto è sublime e terribile, dolcissimo e atroce come quello di chi muore o vaga dopo la morte. Erano questi i suoni ascoltati già dalla bambina, che ora sta per scoprire il segreto di quel luogo?
Le certezze, appena raggiunte, si sfaldano. La ricercatrice-scienziata si ammala, delira pesantemente, non ottiene più nessun aiuto da parte dei crottardesi che ormai la considerano una nemica: anche l’aiutante-amica-sciamana Bernardetta scompare all’improvviso, forse portandosi via tutti gli appunti e le registrazioni. Le tracce non ci sono più, la ricerca potrebbe concludersi nel nulla o nella solita routine delle tesine accademiche.
Ma non è questo che accade. La protagonista e Fausto sanno che c’è ancora molto da scoprire. Crottarda, a sua modo una nuova città ‘impensabile’ (per parafrasare Calvino), collega il fondamento ancestrale presente in ogni essere umano con il desiderio e il terrore di conoscerlo e magari di scoprirlo tremendo. Contro la vitalità semplicistica degli abitanti di Autelor, occorre insomma decifrare i codici segreti dei crottardesi, la loro lingua che non parla più nessuno, la loro esistenza catacombale, le loro ossessioni carnevalesche e macabre. Ancorato all’incertezza tipica del genere fantastico alla Todorov, il romanzo di Morandini coniuga una scrittura nitida con una materia densamente antropologica, in cui il mito e il reperto non si possono districare. E scopriamo, in fondo, che oscillanti siamo un po’ tutti noi.