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4 maggio 2019

Di Alberto in: Proposte

Una discussione con Walter Siti


Si propone qui il testo della “Lettera aperta a Walter Siti” sulle idee di letteratura attuali, uscita su “L’età del Ferro”, 3, aprile 2019

 

Lettera aperta a Walter Siti sulle nostre idee di letteratura

 

Caro Walter,

 

ho pensato a lungo se era il caso di rispondere alle tue pagine dedicate, nel secondo numero di questa rivista, al mio libro Biologia della letteratura, pubblicato dal Saggiatore all’inizio del 2018. Alla fine mi sono deciso, sia perché le questioni che poni, benché molto sinteticamente, sono davvero importanti, sia perché a un anno dall’uscita penso di poter trarre vari spunti dalle reazioni che quel saggio ha suscitato, in modo da precisare alcune mie convinzioni su come attualmente possiamo intendere la letteratura (e le arti in genere).

Tu mi dirai: “Ma perché non rispondi a Matteo Marchesini, che nello stesso fascicolo ha speso ben più impegno per esaminare il tuo lavoro, producendo critiche su critiche condite di sapida ironia verso il risultato delle tue decennali fatiche?” In confidenza: purtroppo non so cosa rispondergli perché non trovo un comune terreno di confronto, almeno sulle basi da me adottate e da lui radicalmente rifiutate. So da tempo che il Marchesini è critico caustico, portato a fustigare tutti quelli che esorbitano rispetto alla sua personale idea di buona letteratura: largo ai Moravia e abbasso i Gadda, il buon romanziere non deve pretendere di avere troppe idee, state contenti al quia, ecc. Solo che degli argomenti che tratto lui palesemente è un neofita e si è impancato a giudicare le mie posizioni sulla base di parametri obsoleti, soprattutto per far vedere che tutto quello che ardisco proporre è già stato detto (e meglio). Marchesini ovviamente direbbe a Galileo che c’è già tutto in Aristotele; qualche secolo prima, direbbe ad Aristotele: “Scusi, ma la sua idea di mimesis l’aveva già impiegata Platone, dov’è la differenza?” Nessun paragone, per carità! Ma devo dire che non ho né tempo né voglia di stare a disquisire sul fatto che un conto sono le singole intuizioni e un altro è il sistema; un conto è vedere i ramoscelli secchi e un altro capire che si sta cominciando a penetrare in una foresta; un conto limitarsi alla contrapposizione a oltranza, un altro è adottare una prospettiva larga per provare a intendere l’interlocutore, senza irriderlo come se fosse uno sproloquiatore supponente. No, lascio ad altri il compito di discutere con il Nostro, magari da angolature più appropriate di quella della satira distruttiva. (Mi giunge ora notizia che lo farà Paolo Gervasi: bene così!).

Ma a te vorrei rispondere qualcosa. E allora riprendo le tue pagine in cui hai acutamente messo in rilievo alcuni cardini del mio scritto e hai mosso alcune obiezioni non secondarie. Riassumendo, tu intanto riconosci, sia pure con qualche perplessità nel merito, che il punto centrale di tutto il mio discorso è lo stile, che nel mio sottotitolo fa da cerniera tra il corpo e la storia (recita appunto, con esibita perentorietà, “Corpo, stile, storia”). Nel corpo io concentro tutti gli aspetti della biologia in senso lato: nel libro spiego a lungo cosa si può intendere con questo termine, ma per dirla in breve quello che interessa è l’homificatio, cioè come gli esseri umani hanno interagito con il loro ambiente sulla base delle loro prerogative cerebro-corporee. Questa per me è ora la necessaria base di partenza: se non capiamo cosa deriva dalla nostra biologia, non capiamo davvero perché a un certo punto dell’evoluzione (o quello che è) nascono le arti, che all’inizio ovviamente non sono un sistema autonomo di entità estetiche ma un modo di interagire con la realtà esterna, secondo l’uso specialistico di Umwelt.

Qui già, come tu lucidamente annoti, si registra un notevole cambiamento rispetto ai paradigmi dominanti negli anni Sessanta-Settanta, con lo strutturalismo e la semiotica a fare da base scientifica e poi tante altre discipline o tanti altri paradigmi gnoseologici a interagire o a eccepire, dalla psicanalisi alla linguistica, dal marxismo all’heideggerismo o al derridaismo in varie salse. Io in effetti ritengo chiusa quella stagione ma non perché sia tutto da buttare, visto che è impossibile annullare alcuni perni che servono in qualunque interpretazione critica di opere d’arte (dagli strumenti tecnico-retorici agli esiti più largamente condivisi della tradizione esegetica precedente); mi pare però che soprattutto il presupposto della partizione binaria A vs B, logico-computazionale, sia insufficiente per cogliere gli aspetti più fini di un’opera letteraria, diciamo i suoi qualia, aspetti qualitativi e non quantitativi o astratti (come, per dire, in un quadrato alla Greimas).

Il mio intento è stato allora quello di estrapolare alcune costanti dalla miriade di nuove ricerche di tipo poetico-cognitivo, illustrate ampiamente in Italia nei recenti libri di Michele Cometa, Stefano Calabrese e miei (prima di quest’ultimo), ma anche, con altri presupposti, da Giorgio Manacorda. Queste costanti sono però tarate sugli scopi delle ricerche strettamente mediche, neurologiche, evolutive ecc., con le varie implicazioni del caso, e quindi c’è sicuramente un salto concettuale da colmare prima di poterle reimpiegare in ambito critico. Per cercare di capire come natura e cultura possono essere interpretate non in contrapposizione ma in un continuum mi sono affidato a numerosi interpreti: spunti preziosi, tanto per dire, li ho trovati in Jean-Pierre Changeux e Paul Ricoeur, in Edward O. Wilson e George Steiner, in Merleau-Ponty e in Bataille, che già negli anni Cinquanta considerava i disegni di Lascaux come il vero inizio dell’arte: e io ho cercato di precisare e motivare meglio quella intuizione (che copione, eh?).

Tutto ciò premesso, quando scrivi che io mi sono interessato soprattutto degli effetti delle propensioni biologiche nell’ambito artistico, mi sembra che tu tenga conto solo di una parte del mio discorso, che invece va a toccare in primo luogo e a lungo la questione dell’inventio, termine ancora una volta usato in senso lato, per ricomprendere una gamma vastissima di categorie attinenti all’arte come ispirazione, creazione, illuminazione o tante altre equivalenti nella varie culture. A mio avviso esistono capacità cerebro-corporee rielaborate sia nell’azione dell’artista sia nella reazione del fruitore: dalla dimensione ‘attenzionale’ alla ritmicità sino alla metaforicità o al blending – che, scusa la pignoleria, non è esattamente un ridire le solite cose con un altro termine, dato che sulla genesi delle metafore si concentra ormai una vastissima e innovativa bibliografia che sinora trova nel blending un modello esplicativo importante, benché anch’esso in fase di revisione. I sempre citati neuroni-specchio garantiscono, per esempio, che vedere un’azione in teatro o farla non è poi così diverso, e su questo possono giocare, in genere inconsciamente, gli artisti per stilizzare (ossia orientare e finalizzare) tutte queste propensioni per dare evidenza a una specifica situazione. In questa prospettiva, che ci siano elementi attrattori non è affatto la conseguenza di singoli modelli o di determinate poetiche, ma è quasi un risultato inevitabile per come sono fatte le persone umane, ed è quindi normale che di un’opera o di un film ecc. a distanza di tempo ci si ricordi magari pochi snodi (o magari un buon numero e variabili, nel caso delle grandi opere), decisivi per un singolo fruitore oppure per un’intera comunità.

Sembra magari che siano cose già note, ma intanto vengono collocate in una dimensione biologica e storica continuativa, cosicché non si deve per forza pensare al solo straniamento formalista oppure alle difficoltà testuali come spie di formazioni di compromesso psicanalitiche o ad altre versioni, tipiche del XX secolo, di procedimenti che sono invece perenni. Ma soffermiamoci invece su alcune implicazioni. La totalità del testo allora non è più un assioma da venerare? Chi decide cos’è rilevante e cosa no? Dobbiamo tornare a discernere poesia e non poesia, o al limite a procedere per clic spitzeriani? Per certi aspetti credo che sia quello che implicitamente si fa sempre se vogliamo non limitarci a descrivere un testo bensì proporre un’interpretazione che abbia qualche fondamento non meramente razionalistico. Francamente sono un po’ stufo dei critici atmosferici che, per esempio, s’impancano a dire di tutto su Dante senza capire nemmeno la necessità stilistica della terzina, così come dei sedicenti critici che hanno come massimo obiettivo il loro ego che trova la novità a tutti i costi, fregandosene di ogni verosimiglianza. Molto meglio chi parte da una base certa, filologica, storica ma anche antropologica, mirando a riconoscere un nucleo di senso rilevante, e poi, su quel fondamento, provi a comprendere meglio come nasce l’idea di un’opera: non è che si debba per forza ritrovare l’etimo profondo dell’autore, come magari sognavano i primi critici psicanalitici, ma è necessario porsi in una dimensione autenticamente di critica genetica.

A me pare che gli strumenti che cominciamo a maneggiare consentano interpretazioni più piene anche partendo solo da dettagli, impedendo sia l’asetticità del notomista, sia la stravaganza del libero lettore. Ci sono dei vincoli per interpretare persino i testi oscuri, e su questo ho scritto molto, là dove ho cercato di definire quali significati e quali sensi può veicolare un’opera d’arte. Qui un’altra differenza rispetto a te la colgo. Io non credo che un’opera debba essere trasgressiva o consolatoria, sperimentale o classica: sono caratteristiche possibili per un testo, a me vanno bene tutte. Poi, non ho nessuna velleità di dire che un’opera letteraria esprime più profondamente di altre forme culturali i fondamenti della storia: se così fosse, un capolavoro lo sarebbe sempre e comunque, tutti dovrebbero sempre riconoscerlo e invece basta guardare l’alterna fortuna di Dante e Petrarca, Shakespeare e Racine, Mann e Joyce per capire che non funziona così. Nel Novecento, tanto per dire, siamo stati molto affezionati all’inconscio, ai traumi, all’individuo sempre più narcisista, e insieme, quasi come equivalente stilistico-strutturale, alle opere aperte-scomponibili. Benissimo, d’accordo, per molti anni sono andati bene alcuni specifici tipi di forme simboliche all’interno del campo artistico-letterario; ma a distanza di tempo, uno scrittore come Proust, tutto sommato lontano dal modernismo più puro, ci sembra più essenziale di altri, come mai? E non è che Racine, al di là dei ritorni del represso che vogliamo individuare nelle sue opere, sia meno grande di Shakespeare da molti punti di vista: credo che si possa capire meglio il perché se ci poniamo in un’ottica di ‘stilizzazione’ dei gesti scenici con la loro carica emotiva, ben indagabile con i nuovi strumenti.

Che poi Racine fosse un ottimo ‘realista’ lo ammetteva persino Auerbach quando non si muoveva nel territorio della mescolanza degli stili e della rappresentazione seria del quotidiano, definitivamente praticato solo a partire da fine Sette-inizi Ottocento. Sulla base delle mie ricerche attuali (ma ne ho già scritto in Letteratura e controvalori, Donzelli 2014) sono disposto a trovare vari gradi di pieno realismo in Omero come in Dante come in Celan: si tratta di intendersi su cosa vogliamo mettere in rilievo senza presupporre che ci sia un realismo più realistico degli altri, come al di là di ogni tentativo di giustificazione di fatto si riscontra in Mimesis. Ora, le tue belle definizioni del realismo come anti-abitudine, leggero strappo, particolare inaspettato per cogliere impreparata la realtà, e insomma come forma di innamoramento (cito dal tuo Il realismo è l’impossibile, Nottetempo 2013, p. 8) mi sembra che siano tutte tarate su un preconcetto inespresso: “io scrivo perché so che, attraverso una mia opera, posso riuscire a dare atto di mie intuizioni, percezioni, condizioni psicologiche profonde, traumi, e questo mi fa uscire dalla realtà così com’è di solito e mi fa rappresentare la sua verità occultata, al limite ‘impossibile’ a vedersi in altro modo”. Un tempo anch’io lo credevo abbastanza (in fin dei conti il mio vecchio Romanzi di Finisterre dedicato ai capolavori che trattano di Seconda Guerra Mondiale si fondava su uno schema simile), e sicuramente l’hanno creduto in tanti almeno dal Romanticismo in poi. Ma purtroppo, noi non scopriamo niente di rilevante se non quello che possiamo davvero condividere, cioè qualcosa compatibile con la nostra corporeità, che è biologia e storia, e in particolare nelle vicende che poniamo in rilievo appunto con le sottolineature stilistiche. Non c’è dualismo, non ci sono privilegi: i nuclei di senso possono nascere anche casualmente e poi rimanere sommersi sino a quando qualcuno, a distanza di secoli, arriva a coglierli, come appunto ci capita con i classici di più lunga durata: di Dante capiamo oggi le tecniche di montaggio narrativo perché siamo abituati a quello cinematografico. Ma anche loro in fondo rientrano in questo continuum, sono solo elaborazioni più ricche, dense e strane.

Da ultimo però tu mi contesti che, analizzando la situazione della letteratura, io sarei portato ad abdicare alle tendenze attuali, fornendo un supporto all’ideologia dominante in campo artistico. Preciso allora alcuni punti. Sulla base di quanto posso affermare dopo un’analisi che tiene conto della ‘lunga durata’ ma anche dei vari periodi storici, la sola parola scritta e in particolare stampata ha decretato un certo sviluppo della letteratura, soprattutto attraverso le forme idonee alla sua elaborazione più complessa (romanzi a intreccio finalizzato, poesie divise in parti simmetriche, ecc.), ma essa non possedeva queste stesse forme prima (l’oralità ha princìpi e finalità in buona parte diversi) e non le ha più o non le avrà breve in posizione dominante. Infatti, quando molte informazioni veicolabili con sforzo e fatica attraverso le parole lo saranno facilmente con i racconti per immagini di Instagram, le forme ibride web-serie visionabile-libro, ora in espansione ma minoritarie, diventeranno la norma, almeno sino a quando il libro scritto risulterà non necessario.

Ovviamente io non sostengo che le recenti ibridazioni, compresi per esempio i sempre più apprezzati graphic novel, siano espressioni culturali più complete, ma nemmeno che attraverso la scrittura riusciamo a dire tutto quello che, antropologicamente, ci interessa e riguarda. A mio avviso possiamo sperimentare molto attraverso la scrittura, soprattutto quando si gioca con il blending più ardito, tuttavia l’insieme della nostra corporeità culturalizzata si trova bene pure con le immagini stratificate e nello stesso immediatamente fruibili (come quelle di Banksy), la musica non dissonante per scelta intellettuale (com’era quella post-weberniana, implosa come già ha indicato Kundera), i testi ri-comunicabili e commentabili sui social, i vari memi ossia i geni della trasmissione culturale (se davvero esistono…), e così via. Si tratta allora di trovare ciò che davvero ci colpisce perché va a creare nuove sinapsi, ad allargare il campo della nostra filosofia oltre il cielo e la terra, e può nascondersi nei dettagli ma i dettagli non è detto che siano sempre gli stessi: un’idea di arte deve ormai essere disponibile a ricollegare sempre il tutto e il niente per ottenere qualcosa, come in una nube (rimando alle acute osservazioni di John Durham Peters sul Cloud come mezzo di comunicazione).

Penso insomma che la letteratura, o l’arte in genere, esplori enormi territori della nostra biologia, anche quelli del positivo e della grazia e dell’armonia. Il non poterci credere fa parte della nostra condizione sociale e politica, e forse su questo punto bisogna combattere. Personalmente vorrei tanto che si tornasse a parlare di cosa vorremmo in un Altro Mondo quaggiù e voi, con questa rivista, penso che siate sulla stessa lunghezza d’onda. Nel campo di forze letterario, m’impegno e diffondo, per esempio negli incontri per le scuole o nelle conferenze non specialistiche, i nuclei di senso stilisticamente marcati che trovo in Dante come in Fenoglio o in Siti ma anche nei Nirvana o in Anselm Kiefer che ri-materializza Pollock (il pittore più immediatamente ‘neurologico’ di tutti i tempi) o in Tommy Vext che ri-crea Zombie, e continuerò a farlo per quanto posso.

Perché io credo che una ‘letteratura’ continuerà ad esistere, così come le altre arti, sempre più unite non a valle, come sinora era necessario fare (testi con musica, con immagini o foto aggiunte…), bensì a monte, appunto a livello di inventio: lo scrittore sarà anche selezionatore delle sue immagini, dei suoi suoni, della sua grafica, e quindi, se vogliamo, anche artista, musicista, webdesigner ecc. La parabola che ho cercato di delineare nel mio libro va in questa direzione, e io lo segnalo per una speranza di effettivo rinnovamento: perché anche a me, credilo, questo presente non piace affatto. Solo che non penso più che la salvezza verrà da un Grande Romanzo, da un singolo autore, dalla scoperta di un dettaglio che gli altri non hanno colto e così via, secondo i vari mantra che si sono alternati durante il Novecento (magari anche solo per essere negati). Le sfumature sono fondamentali, lo riconosco, e infatti trovo giustissimo l’assioma di DeLillo “Capital burns off the nuance in a culture”. Ma per recuperarle come valore collettivo bisogna concepire le (nuove) arti come un sistema di interpretazione integrata della realtà, non come manifestazione del disagio dei singoli, pur con tutto il rispetto verso il dolore personale.

Se non ci sforziamo di allargare lo sguardo, di passare dalla biologia alla storia ma anche viceversa, non arriveremo a comprendere il mondo in cui ogni male è il male di tutti. E già adesso uno scrittore può pensare il suo romanzo o come ennesima estensione dell’individualismo analizzando il mondo globale come aggregato di monadi, o invece come coraggioso tentativo di capire quel mondo come insieme di dati e di qualia, ipotizzando su basi biologico-cognitive e filosofiche qual è la cifra reale di un mondo-Cloud, e semmai cercando di agire per creare nuovi ‘addensamenti’ che siano artistici ma che nello stesso tempo possano indicare qualcosa di significativo anche a livello politico. Perché solo riuscendo a interpretare appieno la complessità delle interazioni attuali, in una forma artistica inevitabilmente integrata, si possono trovare stimoli per inventarsi nuove fantasie al potere: per superare sia la dialettica hegelo-marxista ormai impraticabile, sia l’attuale vittoria dei neofascismi a base capitalistica, desolatamente monocromatici.

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