Nuove proposte contro l’autenticità dell’Epistola a Cangrande (III)
Si presentano qui, in più puntate, alcune delle recenti acquisizioni contro l’autenticità dell’Epistola a Cangrande, riassunte nel lavoro di Alberto Casadei uscito su “Studi Danteschi” nel 2016 (cfr. https://www.academia.edu/33524535/Sempre_contro_lautenticit%C3%A0_dellEpistola_a_Cangrande_in_Studi_Danteschi_LXXI_2016_pp._215-245)
Continua dal mese di agosto 2017
3.5. Terminata la parte di discussione dei contributi critici più recenti, occorrerebbe adesso valutare nell’insieme gli apporti conferiti dalle ultime edizioni commentate, a cominciare da quelle di Manlio Pastore Stocchi e di Claudia Villa, per arrivare a quella recentissima curata da Luca Azzetta (per le indicazioni bibliografiche, si rinvia alla nota iniziale). Ci si limiterà però a vagliare gli apporti di quest’ultima, perché le prime non affrontano la questione dell’autenticità se non in maniera indiretta (o addirittura la danno per acquisita senza bisogno di verifiche); sotto questo profilo, Azzetta ha il merito di non nascondere nessuna delle difficoltà storiche e interpretative che sin dal 1819 hanno portato molti studiosi a dubitare dell’Epistola (si veda il suo commento, p. 273), e a esse la Nota introduttiva vuole rispondere in maniera organica. Nella sostanza, l’opinione dello studioso è che l’Epistola sia stata scritta da Dante in un momento di seria difficoltà durante il suo soggiorno veronese, intorno al 1318-1319, e il suo scopo sarebbe stato quello di tornare ad avere un rapporto fiduciario con Cangrande della Scala, rispondendo a quanto sostenuto dai non meglio definiti detrattori (cfr. Epistola, specie §§ 80-81 e qui sopra, n. 21). La “rei familiaris angustia” sarebbe dunque quella in cui versava il poeta ancora a Verona (quindi, si dovrebbe indurre, anche a causa della scarsa generosità del signore), e ciò lo avrebbe spinto a giocare un’ultima carta, cioè quella di dedicare la terza cantica a Cangrande. Ma la situazione precipitò poi così rapidamente da costringere il poeta a cercare rifugio a Ravenna nel 1319 (molti indizi esterni lascerebbero però intendere che il trasferimento sia avvenuto nella seconda metà del 1318), senza aver tentato di spedire l’Epistola stessa, che sarebbe rimasta fra le carte inedite.
A questo punto, pur con motivazioni e ricostruzioni molto diverse, si arriverebbe a una soluzione simile a quella prospettata da Bellomo (diffusione post mortem, da Ravenna), e Azzetta in effetti la propone implicitamente, sostenendo a più riprese che la tradizione indiretta dell’Epistola sarebbe molto ampia, a partire almeno dal Lana e da Guido, a suo avviso senz’altro debitori verso l’accessus, peraltro senza conoscere il resto della lettera e quindi il suo autore. Quanto alla dissimmetria fra Iacopo e Pietro Alighieri riguardo alla conoscenza della lettera, lo studioso ne dà notizia senza spiegarla in alcun modo, ma dalla sua ipotesi si dovrebbe inferire che sarebbe stato Pietro a ritrovare l’Epistola (ma Iacopo aveva lavorato per primo sulle carte del padre), a diffonderla parzialmente (il solo accessus: perché?), e a tenerla poi per sé, senza mai far sapere a chicchessia (nemmeno al fratello) della sua importanza, tanto che l’Epistola medesima rimase ignota a Verona; ma sarebbe forse arrivata con Pietro a Firenze (cfr. p. 419), per giungere agli inizi degli anni Quaranta pressoché in esclusiva ad Andrea Lancia, dato che, a quanto sappiamo, nella patria di Dante a lungo non la conosce per intero nessun altro, Boccaccio compreso: anche a lui quindi venne tenuto nascosto questo tesoro.
Azzetta avanza poi originali interpretazioni per dimostrare la novità di molte parti dell’Epistola, per esempio riguardo alla spiegazione del valore del comico, a suo avviso particolarmente ingegnosa (cfr. pp. 293 s.); e anche riguardo alla polisemia, dato che questo aspetto, da tempo ricercato anche in opere laiche come l’Eneide, risulterebbe eccezionale nella formulazione dell’accessus (cfr. p. 293 e le note a pp. 358 ss.: sarebbero stati opportuni più riferimenti alle opposte osservazioni di Jean Pépin nel merito). In ogni caso, l’intera Epistola risulterebbe non solo perfettamente coesa e ben equilibrata in tutte le sue parti[1], ma frutto di una strategia concepibile solo da parte di Dante, che peraltro, dopo aver compiuto questo notevolissimo sforzo, non avrebbe nemmeno osato inviarla a Cangrande. Quale sarebbe il motivo di questo singolare comportamento? Si dovrebbe evincere, da questa ricostruzione, che il poeta sarebbe stato quasi costretto a fuggire dalla corte veronese a causa delle azioni degli invidiosi; eventualmente, avrebbe potuto cogliere al volo un’offerta da parte di Guido Novello da Polenta, ma il contesto non cambierebbe. Una situazione di tale gravità non ci è in nessun modo attestata dai biografi coevi, mentre, se si vuole dar credito al Petrarca di Rer. Mem. II, 83 e alla sua aneddotica, come fa Azzetta (pp. 291 s.), allora bisogna riconoscere che Dante era osteggiato proprio da Cangrande. Il totale deterioramento sarebbe comunque avvenuto nell’arco di pochi mesi, quelli che vanno grosso modo dalla prima metà del 1318, periodo in cui anche lo studioso pensa che siano stati scritti o compiuti il superbo elogio nel XVII del Paradiso (che però non è esplicitamente menzionato nell’Epistola) e la difesa contro la scomunica inflitta da Giovanni XXII (in Pd. 18, 130 ss.), alla fine dello stesso anno o all’inizio del successivo[2].
Già da questa sintesi, che non dà conto di vari spunti interpretativi senz’altro condivisibili, emergono alcune debolezze oggettive nella ricostruzione di Azzetta. Innanzitutto, l’Epistola nascerebbe per dedicare il Paradiso a Cangrande, che dovrebbe essere comunque un dono concreto: altrimenti bisognerebbe intendere in senso metaforico l’omaggio costituito appunto dalla terza cantica nella frase “quod in hac donatione plus dono quam domino et honoris et fame conferri videri potest” (§ 12), con uno stranissimo sbilanciamento (il ‘dono’ non sarebbe concreto ma solo ipotetico). Ma se appunto Dante promette di dedicare la terza cantica a Cangrande senza inviarla, quale sarebbe in questo caso il dono che riceverebbe maggiore onore e fama? Sarebbe la promessa o invece la cantica, che però, come anche Azzetta ammette, nel 1318-1319 era ben lungi dall’essere compiuta, e allora quanto meno ci si aspetterebbe l’uso di tempi al futuro?
Lo studioso è molto abile nell’evitare di esprimersi su cosa, concretamente, Dante avrebbe mandato a Cangrande[3], ma il testo è chiarissimo nel ribadire costantemente che sia l’invio, sia l’esegesi riguardano l’intera cantica: e come si potrebbe pensare altrimenti di scrivere un accessus che coinvolge nel contempo l’opera e il Paradiso (la pars oblata, ossia non ‘offerta’ ma ‘pre-offerta’: Azzetta non presenta però riscontri per questo valore, e si limita a considerazioni generiche, cfr. p. 346)? Ma si tratterebbe invece di un’esegesi ‘preventiva’, su una cantica conosciuta in parte (non si sa quale), e che potrebbe anche non venire completata, e che però si dà come compiuta. Né giova il fatto che Cangrande avrebbe già conosciuto l’inizio dell’opera e magari il canto con il suo elogio: perché allora non farlo capire esplicitamente, e invece proporre la dedica della cantica come un dono fra i piccoli (“munuscula”) che per la prima volta il signore poteva ricevere? E in ogni caso: la cantica pre-offerta di cui si dà un’introduzione (“ad introductionem oblati operis”), in che misura doveva essere nota al signore di Verona per rendere l’esegesi comprensibile, dato che non era materialmente presente[4]?
Secondo Azzetta, comunque, la formula “vobis ascribo, vobis offero, vobis denique recommendo” (§ 11) non sarebbe sufficiente a indicare un’offerta concreta, dato che si potrebbe trattare di una mera richiesta di protezione: il che, peraltro, confligge abbastanza con l’idea dell’invio di un dono, che non viene inviato ma deve essere protetto, evidentemente a distanza. Tuttavia, lo studioso deve ritagliare pro domo sua una formula di Raimondo Lullo, che riguardava la spedizione dell’Ars compendiosa Dei (essendo una lettera accompagnatoria di un’opera inedita, non si può certo pensare a una mera richiesta di protezione senza che di essa il protettore sapesse nulla): è vero, come viene riportato alla nota di pp. 340 s. ad l., che la protezione del libro è dapprima richiesta a Dio e alla Madonna; ma il testo prosegue, e questo invece non viene segnalato nel commento, con la seguente frase:
Et ipsum per consequens patri sanctissimo Domino Clementi V, et uenerabilissimis dominis cardinalibus recommendo; et excellentissimo Philippo, Francorum regi, domino, una cum clericorum Parisiensium reuerendissima facultate, supplicando, quantum possum, quatenus uideant librum istum, et ipsum promoueant, multiplicent et exaltent, quia Dei factus est ad honorem[5].
Tutti gli interpreti considerano questo il chiaro segno di un invio dell’opera compiuta: e in effetti si può forse pensare che qui sia in gioco solo una richiesta di protezione senza che sia previsto l’invio concreto dell’opera? Le formule analoghe a quella dell’Epistola possono variare retoricamente, ma si tratterà di richieste in presentia, non di promesse in absentia del testo dedicato: altrimenti questo sarebbe stato specificato.
Quanto poi alla tradizione indiretta dell’Epistola, cui Azzetta (pp. 418 ss.) attribuisce particolare importanza, si torna a questioni affrontate qui sopra (e ad altre da tempo note): la dipendenza del Lana e di Guido dall’Epistola è postulata ma non dimostrata, mentre non vengono trattati casi che dimostrano il contrario come quelli commentati qui al § 3.3 (e cfr. soprattutto n. 34). Ma per ricapitolare i punti irrisolti, Azzetta non fornisce alcuna spiegazione del perché Iacopo Alighieri non sappia nulla dell’Epistola, mentre il più giovane Pietro sì (almeno secondo la sua ricostruzione); non chiarisce sino in fondo chi avrebbe diffuso il solo accessus dell’Epistola, in modo che questo fosse poi impiegato da Lana e Guido, senza sapere della paternità; non spiega perché i due commentatori avrebbero dovuto rielaborare fortemente il testo dell’accessus, se lo consideravano talmente valido da tenerlo a modello per i loro.
Come in molte analisi analoghe, che mirano a dimostrare la notevole qualità dell’esegesi dell’Epistola valutando le singolarità quali aspetti positivi, si riconosce anche in queste un circolo vizioso: giacché l’autenticità è postulata, si cercano possibili ermeneutiche magari sottilissime per giustificare ogni contraddizione, senza mai effettuare la verifica dell’economicità di una spiegazione diversa e corrispondente a tutti gli indizi disponibili. Per esempio, Azzetta non prende nemmeno in considerazione la semplice ipotesi che l’Epistola sia stata creata per avallare una dedica del Paradiso a Cangrande (e poi anche per fornire un’esegesi autorevole), idea che poteva facilmente nascere sulla scorta dell’elogio di Pd. 17, 76 ss. e che a Verona, tra la fine degli anni Venti e quella degli anni Trenta, poteva altrettanto facilmente trovare una concretizzazione (cfr. anche infra, § 4). Le supposte difficoltà che lo studioso prospetta contro un assemblaggio di parti nate eventualmente in momenti diversi sono più teoriche che reali: avendo a disposizione un’epistola dantesca, ma probabilmente risalente al 1315-1317 (cfr. supra, § 3.2. e n. 17), e decidendo di usarla come base per il ‘falso’ della dedica, un letterato di modeste competenze poteva benissimo creare i raccordi che peraltro non impediscono di notare quanto i §§ 12-13 siano problematici in tutta la tradizione, e quanti altri punti siano approssimativi o insoddisfacenti quanto a organizzazione concettuale[6].
Nell’insieme, le ipotesi di Azzetta non riescono a rispondere in modo convincente ai problemi segnalati nel § 3.1, perché postulano non solo un uso parziale delle evidenze e degli indizi disponibili, ma anche un’estrapolazione molto forte rispetto a una base documentaria scarsa e infida, soprattutto là dove si deve pensare che, in un periodo molto breve, Dante sia passato da un forte elogio e da una sincera difesa di Cangrande a una fuga addirittura repentina dalla corte scaligera, che potrebbe essere stata causata solo da contrasti insanabili. In realtà, questa debolissima congettura è utile per sostenere che il testo dell’Epistola non sia entrato in circolazione, il che permetterebbe di risolvere se non altro il problema della sua mancata divulgazione a Verona. Tuttavia, un’ultima controipotesi andrà almeno enunciata, dato che ci si muove in un campo quasi ‘controfattuale’: se davvero Dante fosse emigrato da Verona senza nemmeno far recapitare la sua Epistola ormai completa, e il rapporto con Cangrande si fosse deteriorato in modo irreparabile, come mai sarebbe rimasto l’elogio senza riserve del XVII canto? Il tempo per correggere quei versi, diventati decisamente impropri se non falsi o ipocriti, era abbondante; né si può invocare una loro presunta circolazione veronese, di cui comunque non si avrebbe traccia, dato che anche Azzetta accetta che il Paradiso nella sua interezza sia stato divulgato solo da Ravenna e postumo. Dunque, l’elogio rimaneva nell’autografo e grazie a quello si è poi diffuso, senza che Dante, addirittura bistrattato da Cangrande, abbia fatto nulla per correggerlo? Sarebbe una situazione davvero onerosa da giustificare.
4. Sarà adesso il caso di riassumere quella che nell’insieme risulta l’ipotesi più economica riguardo all’autenticità o meno dell’Epistola a Cangrande, tenendo conto di tutte le evidenze, gli indizi e i riscontri interdiscorsivi e intertestuali a oggi reperibili. L’impossibilità di risolvere i tre problemi indicati nel § 3.1 spinge a considerare il testo un falso almeno a partire dalla dedica della terza cantica a Cangrande. La sua preparazione dovrebbe risalire a un periodo compreso tra la fine degli anni Venti, quando cominciò a circolare l’accessus di Guido da Pisa, e l’inizio degli anni Quaranta, quando la diffusione dell’Epistola è attestata da Andrea Lancia. Il luogo dove il falso fu composto è con ogni probabilità Verona, dove potevano essere disponibili i materiali per la realizzazione del testo, compreso l’unico modello classico confrontabile, l’Epistola dedicatoria della Naturalis Historia di Plinio il Vecchio, che proprio in ambito veronese trovava la sua prima divulgazione. Questa singolare nuncupatio è indirizzata, come si sa, al futuro imperatore Tito Vespasiano, al quale Plinio si rivolge confidenzialmente, sottolineando la comune amicizia, e insieme con l’intento di chiarire molte delle caratteristiche dell’opera che viene offerta. Non solo quindi viene dedicato il testo, ma si segnalano anche le fonti impiegate, si discute dello stile adottato e in conclusione si allega alla lettera un sunto dei singoli libri («Quia occupationibus tuis publico bono parcendum erat, quid singulis contineretur libris, huic epistulae subiunxi summaque cura […] operam dedi»: ed. a cura di G.B. Conte, vol. I, Torino, Einaudi, 1982, p. 20). Non si riscontrano contatti stretti con l’Epistola a Cangrande, e tuttavia le analogie risultano evidenti, almeno nella versione conclusiva del testo attribuito a Dante. Si tratterebbe allora di capire se Plinio il Vecchio poteva rientrare fra le sue letture: in questo senso, la voce relativa dell’Enciclopedia dantesca, redatta da Giorgio Brugnoli, non lascia molti margini di dubbio, dato che le citazioni pliniane risultano, nelle opere dantesche, sempre indirette. Viceversa, è ben noto che un importante codice della Naturalis Historia era presente alla Capitolare di Verona ancora nel Trecento, dove Giovanni Mansionario, ovvero de’ Matociis, ebbe modo di consultarlo nei primi decenni del secolo, giungendo a scrivere la sua celebre Brevis adnotatio de duobus Pliniis[7].
Verosimilmente, la prima spinta a realizzare il falso fu quella di garantire a Cangrande e ai suoi eredi una prestigiosissima dedica, ben sostenibile in forza dell’alto elogio del condottiero contenuto nel canto XVII del Paradiso; in seconda istanza, si dette valore a una serie di interpretazioni del poema (fine morale e non speculativo-teologico; allegoria e non profezia o visione ecc.), che comunque erano utili a contrastare le polemiche in atto sin dalla fine degli anni Venti, da parte di detrattori sia laici che ecclesiastici. Non paiono invece accertabili, a livello testuale o contestuale, confronti impliciti fra le affermazioni dell’Epistola riguardo al comico e le teorie di Mussato, o comunque di ambito padovano, riguardo al tragico[8].
La dedica a Cangrande forse trovò una risposta nell’Epistola di Ilaro dove, come è noto, si afferma che la dedica del Paradiso era assegnata a Federico d’Aragona: e si noti che, a meno di non pensare a un cambiamento da parte dell’autore su un punto così delicato (cambiamento che oltretutto sarebbe avvenuto dopo la segnalazione precisa dei destinatari a Ilaro, primo glossatore e portavoce ‘ufficiale’), uno dei due testi ‘autentici’ deve per forza essere sostanzialmente falso – ma non si esclude, ed è anzi molto probabile, che lo siano entrambi[9].
[1] Nella sua ricerca di corrispondenze e simmetrie Azzetta (cfr. p. 414) ne ipotizza addirittura una voluta fra l’“urget”, collocato a testo su base stemmatica nel § 13 (“a primordio metam prefixam urget ulterius”), e quello del § 88, presente proprio nella problematica formula “Urget enim me rei familiaris angustia”. Ma a parte il fatto che un simile rinvio interno, che si crea a distanza di numerose pagine di testo (75 capoversi), non verrebbe mai colto da nessun lettore comune, non si capisce per quale motivo Dante avrebbe pensato di equiparare implicitamente l’urgenza di offrire a Cangrande un commento al Paradiso, benché non completato, e quella materialissima di dover rispondere alle difficoltà economiche familiari (oltretutto almeno in parte dovute proprio al signore scaligero): se questa cavillosa corrispondenza esistesse, sarebbe semmai un segnale del valore unicamente opportunistico dello slancio iniziale.
[2] Si noti che Azzetta, per corroborare questa ricostruzione, invoca (pp. 291 e 414) persino un’interpretazione di Pd. 17, 91-93 (“e portera’ne scritto ne la mente / di lui, e nol dirai»; e disse cose / incredibili a quei che fier presente”) dovuta al Lana, che vedrebbe in questo passo una forma prudenziale di attesa per i futuri esiti (negativi) del rapporto con Cangrande. Ma molte delle dicerie nascono o in ambienti certo non simpatizzanti nei confronti del signore di Verona, oppure da topoi sull’ingratitudine dei signori, oppure da altri passi danteschi (cfr. qui § 3.2 e n. 18). Inoltre, dato che lo studioso si mostra incline a credere all’autenticità della Questio, dovrebbe anche giustificare questo glorioso momento in un contesto che lui suppone del tutto ostile (su ciò non insisto, considerando apocrifo questo trattatello; in ogni caso si tratterebbe di un documento che testimonia una ‘fortuna dantesca’ sotto Cangrande, quindi di segno opposto rispetto ai precedenti).
[3] Assai evasiva, a questo proposito, tutta l’argomentazione di p. 286, che in sostanza vorrebbe suggerire che non è possibile indicare esattamente cosa Dante avrebbe spedito a Cangrande assieme all’Epistola, mentre questa informazione risulta indispensabile per poter verificare la plausibilità dell’ipotesi nel suo insieme.
[4] Su questi punti si veda sopra il § 3.2. Quanto all’espressione “tamquam sub epigrammate proprio dedicatam” (Epistola, § 11), l’esegesi di Azzetta ad l. (p. 340) non tiene conto dell’ampia casistica in merito ricavabile dalla tradizione classica e mediolatina appunto dell’epigramma di dedica, che avrebbe consentito un inquadramento più esatto: cfr. L. Mondin, La misura epigrammatica nella tarda latinità, in A.M. Morelli (a cura di), Epigramma longum, Cassino, Edd. Univ. di Cassino, 2008, tomo II, pp. 399-494, specie 441-463.
[5] Il testo era citato per intero nel mio lavoro Sull’autenticità…, cit., p. 806; oltre a non considerare la parte riportata, Azzetta non ha segnalato che “offerre” indica un invio concreto pure in epistole di Petrarca (cfr. ivi, p. 804): in ogni caso, si tratta di formule usate in riferimento a opere completate. Lo studioso cita invece la famosa frase di Brunetto Latini nell’Inferno “Sieti raccomandato il mio Tesoro” (If. 15, 119), che ovviamente non prevede una consegna; ma non considera che Dante, nel 1300, conosceva benissimo il Tresor e verosimilmente ne possedeva da tempo una copia, mentre il contesto dell’invio lulliano è relativo a un’opera ancora non divulgata e di certo non posseduta dagli auspicati protettori.
[6] Quanto agli interventi testuali di Azzetta, ci si limita a citare quello che riporta a testo nel § 13 la formula “quasi vitam parvipendens” (p. 307): si ipotizza una formula iperbolica, che peraltro crea un’immagine quanto meno goffa nel contesto, come notava implicitamente già Cecchini (comm. cit., p. xli). In ogni caso, non è dalle eventuali correzioni a quel passo che dipende l’idea di una scrittura della pars nuncupatoria precedente alla dedica intorno al 1315-1317 (cfr. invece il commento di Azzetta, p. 342, ad l.): personalmente avevo solo segnalato che il passo si presta a soluzioni editoriali molto divaricate, con implicazioni interpretative in ogni caso problematiche (cfr. Dante oltre la “Commedia”, cit., p. 29, specie n. 23).
[7] Per approfondimenti su questi punti, si veda Sull’autenticità dell’Epistola…, cit., in cui vengono forniti ulteriori elementi in merito alla fortuna di Plinio il Vecchio a Verona negli anni Venti del XIV secolo: e cfr. già M. Petoletti, Il “Chronicon” di Benzo d’Alessandria e i classici latini all’inizio del XIV secolo, Milano, Vita&Pensiero, 2000, specie pp. 78 ss., 332 ss.; totalmente infondata è però l’illazione di Azzetta, comm. cit., p. 429, che mi attribuisce l’ipotesi di identificare in Giovanni Mansionario il possibile compilatore dell’Epistola. Naturalmente sarebbero fondamentali altri sondaggi, per esempio nel corpus delle opere di Ferreto Ferreti, nella speranza di trovare ulteriori tracce della fortuna dantesca tra Verona e Vicenza: cfr. intanto G. Bottari, La cultura veronese attorno a Dante. I: tra storia e letteratura, in “Per correr miglior acque…”, Atti dei convegni di Verona e Ravenna (1999), voll. 2, Roma, Salerno Ed., 2001, I, pp. 371-391, e Id., Fili della cultura veronese del Trecento, Verona, Fiorini, 2010, specie pp. 1-5, e anche 8-9 (sulla Questio, che meriterà una nuova disamina complessiva, anche sulla base della recente edizione a cura di Michele Rinaldi, nel volume della Necod Epistole…, cit., pp. 653-751: essa però non apporta elementi originali a favore dell’autenticità e non affronta in modo esplicito le incongruenze di ordine storico-cronologico e biografico, nonché quelle, probabilmente insanabili, con gli assunti di If. 34, 106-126).
[8] Cfr. Ricklin, L’“Epistola…”, cit., pp. 78 ss., e, anche più diffusamente, Id., Indagine su un disguido epistolare: l’Epistola a Cangrande fra Verona e Padova, in Medieval letters between fiction and document, a cura di C. Høgel e E. Bartoli, Turnhout, Brepols, 2015, pp. 369-379, dove si ipotizza una polemica implicita contro la ‘fetida’ tragedia di ambito padovano e a favore della commedia veronese: ma va notato che anche l’inizio della ‘commedia’ dantesca è definito ‘fetido’ in Epistola, § 31 (“a principio horribilis et fetida est”), e ciò fa svanire una possibile contrapposizione.
[9] Sull’Epistola di Ilaro è tornato da ultimo, con importanti precisazioni archivistiche (a sfavore dell’autenticità), P. Pellegrini, Tra Dante e Boccaccio: il monaco Ilaro ‘non è mai esistito’, in “Storie e linguaggi”, I, 2015, 1, pp. 41-103, specie 62 s., 74 s., 83 (dove però si ammette che resta difficile capire come un falsario integrale abbia potuto individuare il rapporto fra il monastero del Corvo e S. Michele degli Scalzi a Pisa). E si vedano anche le obiezioni mosse da G. Sasso, Appunti sulla epistola di frate Ilaro, in “La Cultura”, L, 2012, 1, pp. 5-43. Ma sulle questioni relative alle varie dediche, va riconsiderato un’ultima volta il Trattatello (I red., ed. Ricci, § 194): infatti, scrivendo “Alcuni vogliono dire lui averlo [il poema] intitolato tutto a messer Cane della Scala” (corsivo mio), Boccaccio fa capire che circolavano versioni contrastanti sulla dedica a Cangrande, le quali poi vengono implicitamente screditate perché attribuite al “volontario ragionare di diversi”.