Nuove proposte contro l’autenticità dell’Epistola a Cangrande (II)
Si presentano qui, in più puntate, alcune delle recenti acquisizioni contro l’autenticità dell’Epistola a Cangrande, riassunte nel lavoro di Alberto Casadei uscito su “Studi Danteschi” nel 2016 (cfr. https://www.academia.edu/33524535/Sempre_contro_lautenticit%C3%A0_dellEpistola_a_Cangrande_in_Studi_Danteschi_LXXI_2016_pp._215-245)
Continua dal mese di luglio 2017
3.1. Sui punti sopra indicati è intervenuto di recente Saverio Bellomo in due articoli strettamente connessi[1]. Riassumendo le posizioni dello studioso, si può osservare quanto segue.
a) Bellomo accetta il fatto che l’Epistola debba accompagnare l’intero Paradiso e sostiene che l’unico periodo in cui ciò potrebbe essere avvenuto è l’ultimo scorcio della vita di Dante, l’estate del 1321. Tenendo conto degli indizi ricavabili dalle Egloghe a Giovanni del Virgilio, sicuramente autentiche, e in particolare dalla seconda di Dante (ovvero la quarta della serie), anche Bellomo è convinto che la terza cantica sia stata ultimata poco prima della morte e aggiunge, tenendo conto delle affermazioni di Boccaccio nel Trattatello, che gli ultimi tredici canti sarebbero stati ritrovati fortunosamente dai figli: proprio assieme a essi sarebbe stata conservata anche l’Epistola, pressoché completa ma non spedita a Cangrande, e quindi divulgata solo post mortem, necessariamente dai figli stessi e in particolare da Iacopo, che si occupò da subito della diffusione del poema paterno (cfr. § 3.2).
b) Sul rapporto tra l’accessus di Guido da Pisa e quello dell’Epistola, Bellomo sostiene la priorità di quest’ultimo sostanzialmente sulla base di due soli fra i numerosi indizi disponibili, ossia l’uso, a suo parere più appropriato in alcuni luoghi dell’Epistola, di formule quali “totum et pars” e “simpliciter (sumptus)”, su cui si tornerà in dettaglio nel § 3.3.
c) Riguardo infine all’interpretazione dell’incipit del Paradiso fornita nell’Epistola, Bellomo avvalora la sua piena plausibilità, sostenendo, per quel passo, una coincidenza perfetta tra la “gloria” di Dio e la sua “luce”, grazie all’applicazione al dettato dell’Epistola di una distinzione tratta dal Convivio (III, xiv, 5): su ciò si veda il § 3.4.
3.2. Riconsideriamo allora quanto detto al punto (a). L’ipotesi di Bellomo risponde a un’obiezione che era stata mossa a tutte quelle sinora avanzate riguardo alla tempistica dell’invio di Epistola e Paradiso congiuntamente[2]. Tuttavia essa va incontro a vari tipi di incongruenze, sulla base dei princìpi indicati nel § 1.
In primo luogo, Bellomo ritaglia dal Trattatello di Boccaccio esclusivamente un indizio a lui utile (l’incompiutezza dell’autografo del poema, cui si lega la notizia dell’occultamento e del successivo miracoloso ritrovamento degli ultimi canti), ma ne trascura altri a quello collegati, e in particolare la chiara affermazione che tutti i canti del Paradiso sino al ventesimo erano stati inviati a Cangrande: “E in così fatta maniera avendogliele tutti, fuori che gli ultimi tredici canti, mandati, e quegli avendo fatti, né ancora mandatigli, avvenne che egli, senza avere alcuna memoria di lasciargli, si morì” (Trattatello, ed. Ricci 1974, I red., § 184; cfr. II red., § 121). Siccome le due affermazioni di Boccaccio sono intimamente connesse, se si accetta che Dante non avesse spedito gli ultimi tredici canti a Cangrande, si deve accettare anche che avesse spedito tutti i precedenti[3]. Ma un fatto così macroscopico non poteva essere taciuto in un’Epistola dedicatoria, mentre invece di ciò non si ha alcuna spia nel testo pervenutoci. L’ipotesi di Bellomo va subito incontro al rischio di non rispondere a tutti gli indizi disponibili.
Essa non risponde poi a un’ovvia conseguenza sul piano della ricostruzione complessiva della diffusione dell’Epistola. Essendo indiscutibile che, secondo la ricostruzione di Bellomo, i primi a leggere e poi a divulgare l’Epistola non possano che essere stati i figli (come sosteneva anche Boccaccio, qualunque credito gli si voglia assegnare: cfr. n. 13), e nella fattispecie Iacopo, dato che le attività di Pietro come dantista sono successive ai primi anni Venti, è inevitabile aspettarsi che della presunta autoesegesi si trovino tracce cospicue nei primi scritti dedicati da Iacopo all’opera del padre, ovvero il sonetto Acciò che le bellezze, Signor mio…, la Divisione e, soprattutto, le Chiose[4]. Viceversa, se c’è una certezza del tutto condivisa dagli studiosi, questa è appunto che Iacopo non sa niente dell’Epistola: basti ricordare il suo modo di giustificare il titolo Commedia, completamente diverso da quello lì rinvenibile[5]. Bellomo dovrebbe quindi spiegare, ma non lo fa in alcun modo, come è possibile che Iacopo, scopritore degli ultimi canti del poema paterno e contemporaneamente dell’Epistola, non ne conosca il contenuto o non ne tenga il minimo conto, arrivando al punto di inviare tutti i materiali relativi al Paradiso (e all’intero poema) a Guido Novello nell’aprile o maggio del 1322, anziché al dedicatario scelto dal padre.
L’ipotesi di Bellomo genera infine varie difficoltà sul piano interpretativo. Se per esempio riprendiamo la parte nuncupatoria dell’Epistola, prima della dedica (che, come vedremo meglio, sarebbe una sezione già soggetta a manipolazione), leggiamo che Dante ha un tempo supposto che la fama di Cangrande fosse superiore alla sua effettiva grandezza, invece poi verificata con una visita a Verona (§§ 1-3): si parla quindi di un periodo antecedente alla conoscenza e poi si accenna genericamente ai favori elargiti, mentre non si evincono riferimenti diretti al soggiorno che tutti i biografi accreditano, con durate variabili ma sempre piuttosto lunghe[6]. Dopodiché, Dante pensa di potersi fregiare del titolo di amico del signore scaligero, per quanto su ciò possano esserci dubbi data la disparità di condizione sociale; ma posto che l’amicizia esiste, Dante vuole inviare un dono a Cangrande in cambio dei benefici ricevuti (§§ 4-10). Non si può stabilire se questa sezione dell’Epistola ha subito manipolazioni; ma ammettendo che sia autentica, suonerebbe davvero singolare che il poeta, nel 1321, non menzionasse esplicitamente il suo soggiorno veronese, durante il quale ha composto e con ogni probabilità fatto leggere l’elogio stesso di Cangrande di Pd. 17, 76-93, seguito da un implicito sostegno dopo la scomunica inflittagli da Giovanni XXII (aprile 1318), cui si allude in Pd. 18, 127-136. Detto in altri termini, così come lo leggiamo il testo si adatterebbe molto meglio a una situazione precedente all’effettivo soggiorno continuato di Dante alla corte di Cangrande, ovvero a una fase (all’incirca tra il 1315 e il ’17) successiva a una prima visita a Verona ormai governata dal nuovo signore, visita collocabile nel periodo dell’impresa di Arrigo in Italia o comunque entro il 1314-1315. In ogni caso, se questo testo fosse stato scritto nel 1321, risulterebbe singolarmente ellittico o generico proprio riguardo a fatti accaduti a Verona o a passi testuali legati all’ambiente veronese[7].
Tralasciamo altri problemi legati alle testimonianze che rievocano i contrasti subentrati fra il poeta e il condottiero, da valutare ricordando il pessimo trattamento di Alberto della Scala in Pg. 18, 121-129[8]. Ma di sicuro il finale relativo alla “rei familiaris angustia” che potrebbe essere sanata proprio da Cangrande (§ 88), anche per poter continuare il commento, sembra del tutto incompatibile con la situazione ricavabile dalla terza e dalla quarta egloga, ovvero quella di Giovanni del Virgilio della primavera-estate del 1320 e la risposta di Dante, ultimata con ogni probabilità nel luglio-agosto del 1321[9]. Ora, se un interlocutore esterno come Giovanni del Virgilio definiva Iollas-Guido Novello come “comis et urbanus” (Egl. III, 80), e se Dante stesso, dopo aver rinunciato a una trasferta a Bologna, pericolosa ma anche prestigiosa e forse redditizia, lo convoca come testimone della decisione (Egl. IV, 95 s.); risulta ben difficile sostenere che, in perfetta contemporaneità, Dante lamentasse una ristrettezza economica che probabilmente non esisteva, ma comunque sarebbe stata di gran lunga inferiore a quelle patite in tanti anni di esilio[10]. Si tratta, è ovvio, di meri indizi, ma nel quadro delineato è evidente che tra questi indizi ricavati dai documenti autentici e l’affermazione di indigenza del § 88 esiste uno iato che non si può colmare se non formulando ipotesi ad hoc[11].
3.3. I punti sin qui indicati pongono in rilievo numerosi elementi di implausibilità dell’ipotesi complessiva di Bellomo: non sarebbe quindi necessario procedere oltre, dato che già uno dei fattori dirimenti sopra segnalati, ossia l’impossibilità di trovare un periodo preciso in cui Dante avrebbe spedito insieme l’Epistola e il Paradiso a Cangrande, risulta ancora valido. Tuttavia, pure su altri piani le congetture di Bellomo risultano insoddisfacenti.
Riprendiamo quanto esposto nel § 3.1.b. Bellomo liquida la questione del rapporto fra l’accessus di Guido da Pisa e quello dell’Epistola supponendo una priorità di quest’ultima nell’uso, in due passi paralleli, del sintagma totum et pars[12] e dell’avverbio simpliciter[13]. Ora, considerare solo due indizi, quando ne esistono numerosissimi altri, oltretutto dettagliatamente indagati dalla critica[14], risulta ben poco giustificato da un punto di vista metodologico. Ma nello specifico, vanno controllati i corpora a disposizione per capire se è plausibile assegnare un valore intertestuale e discriminante a espressioni formulari. Come è ben noto, tali sono quelle indicate dallo studioso, e infatti un semplice sondaggio sulla Library of Latin Texts propone decine di esempi per “totum et pars”, anche con funzione meramente rafforzativa, e di “simpliciter sumpt*” (questo il sintagma da prendere in considerazione)[15]. In generale, espressioni prive di valore caratterizzante difficilmente possono avere da sole un forte peso nella dimostrazione di rapporti intertestuali.
Ma in realtà si può notare che il loro uso è molto più appropriato in Guido che non nell’Epistola. Infatti, nei passi in questione la formula totum et pars non va riferita al rapporto fra l’intero poema e il suo Paradiso, distinzione introdotta nell’Epistola al § 19 appunto per sottolineare che, a tratti, si parlerà solo della “parte offerta” ovvero la terza cantica. È invece riferita al “genere” dell’opera, che è in tutto e in ogni sua parte “inventum et fictum”. Non a caso, introdotta da un chiarissimo “nam”, segue una delucidazione sulle parti del poema che possono apparire di tipo speculativo, più che necessaria nel discorso di Guido: “istud genus est morale negotium, sive ethyca, quia non ad speculandum, sed ad opus inventum et fictum est totum et pars. Nam, etsi in aliquo loco vel passu pertractatur ad modum speculativi negotii, hoc non est gratia speculativi negotii principaliter sed operis; quia – ut ait Philosophus secundo Methaphysice – ‘ad aliquid et nunc speculantur pratici aliquando’”[16]. Si colgono quindi due valori diversi di “totum et pars”, ma la confusione si è potuta generare per l’uso divaricato che del sintagma si fa solo nell’Epistola.
Ancora più sottile e intrigante la questione di “simpliciter sumptus”: l’espressione, come si è visto, è largamente attestata a livello filosofico e in genere “’simpliciter‘ vocatur terminus sumptus sine addito respectu ipsius” (Buridano). L’espressione è quindi perfetta già in Guido: sarebbe l’argomento in sé, senza nessuna specificazione o aggiunta[17]. Ma questo valore risulta difficilmente confermabile nel § 33 dell’Epistola (cfr. n. 23), dove il “simpliciter acceptus [variatio per sumptus, riscontrabile p.e. in Alberto Magno e Tommaso]” viene collegato a un “contractus” in modo non molto appropriato, tanto è vero che la traduzione deve diventare “in generale” (ma allora, al posto di “simpliciter”, sarebbe stato più adeguato un avverbio come “generaliter” o “universaliter”, presenti in Guido, o “totaliter”, usato anche nell’Epistola) opposto a “in particolare”, valori che però si assegnano solo su base contestuale.
Gli indizi presi in considerazione da Bellomo[18] non hanno quindi alcun valore discriminante, e semmai indicano varie criticità proprio nel testo dell’Epistola[19]. Viceversa, lo studioso non ha considerato, come invece avrebbe potuto[20], che l’accessus dell’Epistola è in sé problematico dato che, come già ricordato, è un unicum, sia perché sarebbe il solo nell’intera tradizione medievale scritto dall’autore stesso; sia perché riguarda nel contempo un’opera intera e una sua parte autonoma, cosicché i sex inquirenda vengono eccezionalmente suddivisi in tre generali e tre particolari (cfr. §§ 18-19). Tutto ciò implica una costruzione estremamente contorta rispetto agli standard; addirittura, riguardo alla causa efficiente si ricorre a una formulazione quasi criptica (“agens igitur totius et partis est ille qui dictus est, et totaliter esse videtur”, § 38): e di certo chi avesse avuto tra le mani solo questa definizione difficilmente avrebbe potuto intendere che l’autore dell’accessus era Dante stesso, ma d’altra parte l’unico modo per intenderla era appunto intuire quanto sopra (e ciò, come già accennato, rende problematica l’ipotesi di una circolazione anonima). In effetti né Guido né, prima di lui, Iacomo della Lana fanno in alcun modo capire di avere trovato un materiale dantesco: ma perché allora avrebbero ritenuto necessario scomporre un prodotto anonimo e dalla struttura complessa e tortuosa, per ricostruire due presentazioni abbastanza o del tutto regolari, con numerose correzioni e variazioni rispetto all’‘originale’[21]?
Invece, l’autore dell’accessus dell’Epistola doveva solo seguire il modello perfettamente canonico di Guido o di un’eventuale fonte comune per quanto lo interessava, rimontando le parti già adeguate e creando quelle adatte al solo Paradiso, perché questo era il suo obiettivo: l’ipotesi è di gran lunga più economica e fra l’altro rispetterebbe la cronologia attualmente nota, con primato del Lana (non essendovi elementi significativi, per il nostro problema, in Iacopo Alighieri e in Bambaglioli), seguito da Guido e poi dall’Epistola (prima attestazione in Andrea Lancia: 1341-1342)[22]. Comunque, nessun valore hanno le affermazioni di carattere generale sui comportamenti dei commentatori: ogni testo segue una sua linea di elaborazione, a volte aggiungendo ma altre cassando rispetto agli antecedenti (come fa lo stesso Lancia nel citare l’Epistola). Ma se si volesse sostenere, semplificando una complessa problematica, che ogni commentatore mira solo ad ampliare le glosse che gli servono da modello, allora sicuramente l’autore dell’Epistola dipenderebbe dal Lana, ben sovrapponibile per le varie definizioni ma assai più sintetico rispetto all’accessus pseudodantesco
Si tratta, come è evidente, di una boutade, volta soprattutto a sottolineare una verità che dovrebbe essere accolta come ovvia (ma così spesso non è): presunte regole generali (o generiche) non possono essere prese a sostegno di argomentazioni puntuali quando si hanno intrecci molto fitti. Riconsideriamo allora il rapporto fra il Lana, Guido e l’Epistola osservando da vicino un punto critico. La definizione del subiectum come “status animarum post mortem” in senso letterale, e invece, in senso allegorico, come “homo prout merendo et demerendo per arbitrii libertatem iustitie premiandi et puniendi obnoxius est”, non si trova solo in Guido e nell’Epistola (§ 25), come si ricaverebbe da Bellomo, ma è già nel Lana: lo studioso però non ne tiene conto e invece cerca di giustificare la stranezza di un senso allegorico che tale non è[23]. Ma se avesse confrontato il preambolo laneo, avrebbe notato che lì non si propone un valore allegorico ma solo “un altro modo” per considerare il soggetto o materia “cioè lu uomo lo quale per lo libero albitrio può meritare overo peccare; per lo quale merito overo colpa ello gli è atribuita gloria overo punito all’altro mondo” (ed. Volpi, I, p. 113; cfr. anche p. 112). Dunque, nel possibile capostipite (attualmente noto) di queste definizioni non si parlava di valore letterale e di valore allegorico, ma semplicemente di due modi di intendere la materia, e ciò elimina un evidente problema sia di Guido sia dell’Epistola. È più economico pensare che il Lana (però non seguito da Guido) sia riuscito a individuare l’incongruenza e abbia pure voluto correggere in questo sottile punto l’Epistola, oppure che questa, seguendo Guido o un archetipo comune a entrambi, abbia complicato quanto era molto più semplice e piano nella formulazione attestata dal Lana[24]? Com’è ovvio, non si vuole instaurare un rapporto di interdipendenza, dato che si potrebbero ipotizzare modelli diversi (come segnala anche la differenza degli schemi seguiti), bensì sottolineare l’esistenza di una formulazione che rende ancora più palesemente erronea quella dell’Epistola e di Guido.
Che la trafila veda il Lana e Guido indipendenti dall’Epistola si potrebbe ipotizzare pure da un altro dettaglio. Il Lana sostiene che il poema viene scritto “per manifestare polida parladura” (Prologo 5; ed. Volpi, pp. 114 s.); anche Guido segue fedelmente questo assunto, che riguarda un primo scopo dell’opera dantesca: “ut discant homines polite et ornate loqui; nullus enim mortalis potest sibi in lingue gloria comparari” (ed. Rinaldi, p. 242; cfr. Chiose laurenziane, ed. Locatin, p. 1056, senza variazioni). Ma nella sezione corrispondente, l’Epistola sottolinea solo che il fine dell’opera sarebbe quello di “removere viventes in hac vita de statu miserie et perducere ad statum felicitatis”[25]. Nessun riferimento alla “gloria della lingua”, perché per l’estensore dell’accessus nell’Epistola il “modus loquendi” è “remissus […] et humilis, quia locutio vulgaris, in qua et muliercule comunicant” (§ 31). La contraddizione rispetto alle attestazioni del sostegno al volgare tipico di Dante, e ribadito ancora nella sua prima Egloga a Giovanni del Virgilio, è già stata esaminata[26], e costituisce un grave problema, nonostante i tentativi di giustificazione. Ma qui si vuole sottolineare che davvero singolare risulterebbe il fortissimo stravolgimento prodotto dal Lana e da Guido, se avessero trovato nell’Epistola gli elementi che ho indicato: perché distorcere una convinzione comunque ben chiara nel modello che da loro risulterebbe seguito piuttosto passivamente su vari altri punti (‘ristrutturazione’ a parte)? Viceversa, in un ambiente preumanistico, quale quello veronese in cui potrebbe essere nata l’Epistola (cfr. § 4), la superiorità del latino sul volgare non poteva che essere ribadita, e ciò giustificherebbe l’eliminazione del riferimento all’uso ottimo, addirittura esemplare, della lingua materna da parte di Dante.
Quest’ultimo punto mi sembra discriminante anche nel caso in cui si voglia pensare che i commenti attualmente noti dipendano tutti da un proto- accessus, circolante forse già a Bologna poco dopo la divulgazione del poema da parte di Iacopo (aprile-maggio 1322), e rinvenibile o con lo schema delle quatuor causae, o con quello dei sex inquirenda (restando da definire meglio i rapporti esatti fra questi due modelli e i loro contenuti): è in estrema sintesi l’ipotesi avanzata con validi argomenti da Fabrizio Franceschini (cfr. n. 8), che modificherebbe certo il quadro di riferimento attuale, ma non i punti sin qui indicati riguardo ai rapporti fra i commenti presi in considerazione. In quest’ottica, per sostenere che l’archetipo ipotizzato sia l’accessus dell’Epistola a Cangrande esattamente nella forma in cui ci è pervenuto, bisognerebbe intanto ritrovare i suoi tratti individualizzanti almeno in qualche testimone noto. Invece, proprio la così specifica (e scottante) questione dell’umiltà del volgare è assente nell’esegesi mediotrecentesca nota, e si dovrebbe quindi ipotizzare che l’accessus dell’Epistola, diffuso a Bologna da qualcuno (ma chi, se non l’ignaro Iacopo?), sarebbe stato subito modificato su questo punto, evidentemente da parte di sostenitori del volgare stesso, e solo al nuovo subarchetipo si sarebbe rifatta l’intera tradizione successiva. Un’ipotesi, come si vede, di forte antieconomicità rispetto a quella ben più semplice e lineare della dipendenza dell’Epistola dal proto-accessus, in particolare nella forma attestata da Guido (comunque indipendente dall’Epistola, se anche non lo si vuole considerare suo modello diretto), corretto appunto per eliminare un riferimento all’eccellenza del volgare, inopportuno per un pubblico ostile o poco sensibile a questo argomento.
3.4. Sul rapporto fra gloria e luce nell’incipit del Paradiso e nell’Epistola, occorre ribadire[27] che, stando alla lettera, la “Gloria Domini” (cfr. v. 1: “La gloria di colui che tutto move”) è distinta dalla “luce”, tanto è vero che, a livello sintattico, al v. 4 si legge: “nel ciel che più della sua [della gloria di Dio] luce prende…”. È vero che la gloria e la luce sono concetti in gran parte sovrapponibili in ambito teologico-patristico, ma non sono interamente coincidenti: Hans Urs von Balthasar definirebbe la “Gloria del Signore” come “deità di Dio”[28], ma in generale sono molteplici i riferimenti che dimostrano la necessità di tenere in prima istanza distinti questi due concetti, pur nella loro estrema vicinanza.
Bellomo però, come si è già accennato, si appoggia su un passo del Convivio (III, xiv, 5) per sostenere che l’Epistola, dove i due campi semantici in questione vengono integralmente sovrapposti dando peraltro la preminenza alla ‘luce’, segue implicitamente una divisione accettata da Dante:
Dico che l’usanza de’ filosofi è di chiamare ‘luce’ lo lume, in quanto esso è nel suo fontale principio; di chiamare ‘raggio’, in quanto esso è per lo mezzo, dal principio al primo corpo dove si termina; di chiamare ‘splendore’, in quanto esso è in altra parte alluminata ripercusso.
Mentre tralascia di considerare tutte le fonti che nutrono il Dante trattatista (che pure sarebbero state utili a meglio determinare la semantica dei vari termini, fra i quali peraltro non è compresa la ‘gloria’), Bellomo afferma che, in base al Convivio, “la luce della gloria non è cosa diversa dalla gloria stessa, ma è la gloria = lume intesa da un punto di vista particolare, cioè in quanto ‘principio fontale’”[29]. Ma senza bisogno di particolari ricerche, l’Epistola stessa è idonea a confutare questa ricostruzione, dato che al § 64 il testo propone una specifica equivalenza “divinus radius sive divina gloria” (mentre Bellomo ne crea un’altra, del tutto arbitraria, con il § 61 dove si parla del ‘divinum lumen’ ma non della gloria): se fosse rispettata la divisione sopra citata, ciò porterebbe a far coincidere appunto la ‘gloria’ con il ‘raggio’, cioè l’elemento luminoso mediano, ottenendo il risultato di non avere più un elemento originario e generatore. In ogni caso, dovremmo constatare che l’autore dell’Epistola contraddice o usa in maniera impropria e soprattutto non sistematica quanto affermato con chiarezza nel Convivio.
Di fatto, l’unico punto davvero essenziale è che l’esegesi dell’Epistola non segue le indicazioni del testo dantesco ma, dopo aver dato spazio unicamente a una riflessione sulla funzione del “resplendere”, giunge inaspettatamente a far coincidere il rapporto fra gloria e luce a uno fra esse ed essentia, incongruo o inesatto rispetto a quanto prima sostenuto: gli esegeti hanno provato in vario modo a sanare la situazione, ma si può solo ipotizzare un’approssimazione concettuale intrinseca all’argomentazione di questo passo, che ancora una volta non si può imputare a una voluta ellitticità argomentativa[30].
[1] Cfr. S. Bellomo, «Una finestretta, da niuno mai più veduta» e la data dell’Epistola di Dante a Cangrande in “Studi e problemi di critica testuale”, 90, 2015, 1, pp. 341-352 e Id., L’Epistola a Cangrande, dantesca per intero: «a rischio di procurarci un dispiacere», in «L’Alighieri», n.s. 45, 2015, gen.-giu., pp. 5-19.
[2] Ricordo che sono state da vari studiosi indicate tutte le date possibili comprese fra il 1316-1317 e il 1320, in genere senza procedere oltre l’agosto di quell’anno, considerando l’aggettivo “victorioso” della rubrica iniziale inopportuno dopo la grave sconfitta inferta a Cangrande dai padovani il 26 agosto 1320: qualche critica a questo limite è stata mossa da Bellomo, “Una finestretta…, cit., specie pp. 344 e 349.
[3] Non è metodologicamente corretto prendere solo una parte delle affermazioni di Boccaccio: se la sua testimonianza riporta un fatto vero, lo fa nella sua interezza, o altrimenti si dovrebbe dimostrare che solo una parte (guarda caso quella utile ad hoc) è autentica. Inoltre, Boccaccio specifica che i canti furono spediti dai figli a Cangrande: “Per la qual cosa lietissimi, quegli riscritti, secondo l’usanza dell’autore prima gli mandarono a messer Cane, e poi alla imperfetta opera ricongiunsono come si convenia. In cotale maniera l’opera, in molti anni compilata, si vide finita”: questo però crea un’altra difficoltà su cui si tornerà poco più avanti, a testo. Ma in realtà tutto il racconto andrebbe invece in questo caso considerato non plausibile: cfr. Dante oltre la “Commedia”, cit., pp. 51 s. Sul Trattatello, si attendono i rilievi che deriveranno da una nuova edizione critica delle varie redazioni: cfr. intanto M. Berté-M. Fiorilla, Il “Trattatello in laude di Dante”, in Boccaccio editore e interprete di Dante, Atti del Convegno internazionale di Roma, 28-30 ottobre 2013, a cura di L. Azzetta e A. Mazzucchi, Roma, Salerno Ed., 2014, pp. 41-72.
[4] L’edizione più recente delle Chiose all’“Inferno” di Iacopo Alighieri è quella curata da S. Bellomo (Padova, Antenore, 1990); per un’interpretazione dei vari punti problematici, si veda ancora Dante oltre la “Commedia”, cit., specie pp. 45-50 (e anche 55-62 per confronti con le Egloghe dantesche, su cui si tornerà).
[5] Comico è l’ambito letterario in cui “generalmente e universalmente si tratta di tutte le cose, e quindi il titol del presente volume procede”: cfr. Iacopo Alighieri, Chiose, cit., pp. 85 ss.
[6] Si veda almeno M. Santagata, Dante. Il romanzo della sua vita, Milano, Mondadori, 2012, pp. 288-299. Anche G. Indizio, Problemi di biografia dantesca, Ravenna, Longo, 2014, pp. 247-261 (versione aggiornata di un contributo discusso da Bellomo), pur con un’impostazione diversa da quella qui impiegata (e favorevole all’autenticità), offre varie indicazioni per ritenere improbabile che l’inscriptio possa portare riferimenti a Cangrande posteriori all’inizio del 1320. A parte, si noti che l’espressione “munuscula mea sepe multum conspexi” (§ 10), se non manipolata, difficilmente sarebbe compatibile con la tempistica ipotizzata da Bellomo, dato che sottintenderebbe una lunga meditazione prima della decisione di inviare il Paradiso, che invece nel luglio-agosto 1321 era appena stato completato.
[7] Fornisce ulteriori considerazioni a favore di una precedenza di questa parte dell’Epistola rispetto all’elogio di Cangrande nel Paradiso T. Ricklin, L’“Epistola a Cangrande”: elementi assodati e nuovi spunti a proposito di un testo contestato, in “Rivista di studi danteschi”, XV, 2015, pp. 66-97, specie 68 s. L’opinione dello studioso è però che l’Epistola accompagnasse i soli primi quattro canti del Paradiso, sulla base di un’analisi ravvicinata del testo, che tuttavia non riesce a giustificare il continuo uso del termine ‘cantica’ per indicare la parte inviata, nonché l’azzardo di proporre un accessus relativo all’intera opera (e specificamente al Paradiso) se la composizione non era giunta che all’inizio dell’ultimo terzo. Sembra portare ulteriori elementi a favore di una datazione della nuncupatoria intorno al 1317 Claudia Villa in contributi attualmente non completi (cfr. “L’Alighieri”, 47, 2016, pp. 19-39). Per altre considerazioni, relative a una diversa ipotesi di datazione dovuta a Luca Azzetta, commento cit., si rinvia al § 3.5.
[8] Su questo cfr. da ultimo M. Veglia, Dante e Cangrande, in “Italianistica”, XLIV, 2015, 2, pp. 181-197, specie 192 ss., che ricorda le valenze politiche dell’elogio del signore veronese nel Paradiso e nota il tono e le implicazioni ben diverse dell’Epistola. Sulla questione, cfr. però anche il § 3.5.
[9] Si veda il commento di G. Albanese, cit., specie pp. 1749 s.; 1783.
[10] Anche l’epitafio dantesco attribuito a Giovanni ricorda esclusivamente l’ottima ospitalità di Guido: “quem pia Guidonis gremio Ravenna Novelli / gaudet honorati continuisse ducis” (citato nel commento di G. Albanese, p. 1750).
[11] Così fa Bellomo, L’Epistola…, p. 11, quando prova a sostenere che la dedica del Paradiso a Cangrande non avrebbe creato problemi a Guido Novello, peraltro senza giustificare in alcun modo l’affermazione della “rei familiaris angustia” (la quale, se si volesse ipotizzare un suo fondamento, sarebbe veritiera soprattutto intorno al 1315-1316). Su questo punto propone osservazioni ancora valide un contributo di F.P. Luiso, Per la varia fortuna di Dante nel Secolo XIV, in “Giornale dantesco”, 10, 1902, pp. 83-97, specie 93 ss.: dove fra l’altro si fa notare che il riferimento agli “invidiosi-detrattori”, riscontrabile ai §§ 80-81, non ha ragion d’essere prima della divulgazione del Paradiso e non trova riscontri nelle testimonianze immediatamente successive alla sua diffusione, mentre risulta più plausibile sulla base di quanto si legge in commenti come quello di Guido da Pisa. Si veda però anche più avanti, § 3.5.
[12] “Istud genus est morale negotium, sive ethyca, quia non ad speculandum, sed ad opus inventum et fictum est totum et pars”: cfr. Epistola, § 40, e Guido da Pisa, ed. Rinaldi, p. 243; e già le sue Chiose laurenziane, ed. Locatin, p. 1056.
[13] Cfr. Epistola, § 24: “Est ergo subiectum totius operis, litteraliter tantum accepti, status animarum post mortem simpliciter sumptus” e § 33: “Nam, si totius operis litteraliter sumpti sic est subiectum: status animarum post mortem, non contractus sed simpliciter acceptus, manifestum est quod hac in parte talis status est subiectum, sed contractus, scilicet status animarum beatarum post mortem”. E cfr. Guido da Pisa: “subiectum huius operis est status animarum post mortem simpliciter sumptus”: ed. Rinaldi, p. 240; e già le sue Chiose laurenziane, ed. Locatin, p. 1054.
[14] Si veda per esempio la Cangrande Dispute tra H.A. Kelly, Cangrande and the Ortho-Dantists e R. Hollander, Response to Henry Ansgar Kelly, con la replica finale di Kelly, Reply to Robert Hollander, Lectura Dantis (Un. of Virginia), 13-14, spring-fall 1994, pp. 61-115. Nello specifico, si veda H.A. Kelly, Dating the accessus section of the pseudo-dantean Epistle to Cangrande, in “Lectura Dantis online”, spring 1988 (link: http://www.brown.edu/Departments/Italian_Studies/LD/numbers/02/kelly.html), con opportune precisazioni su totum et pars. Ulteriori considerazioni saranno apportate dal nuovo contributo di F. Franceschini, cit. in nota 8.
[15] Per non tediare con lunghi quanto aridi elenchi, basti il rinvio a: http://clt.brepolis.net.pros.lib.unimi.it/llta/pages/Results.aspx?qry=c29bf8cd-43d7-43fb-94fb-265dc25fa5aa&per=0; e a http://clt.brepolis.net.pros.lib.unimi.it/llta/pages/ Results.aspx?qry=9948c5cf-c238-4f45-952c-9c55555c8105&per=0.
[16] Cfr. Guido da Pisa, ed. Rinaldi, p. 243. Proprio nella determinazione di un genus si doveva stabilire la sua consistenza totum et pars: basti il rinvio ad Alberto Magno, Super Porphyrium de V universalibus, tract. 4, cap. 7.
[17] L’uso è esemplificato per esempio da Guglielmo di Ockham, Expositio super libros Elenchorum, I, 14, 8. Bene, fra i traduttori dell’Epistola, Pastore Stocchi: “considerato in sé e per sé” (ed. cit., pp. 107-109).
[18] Riprende le stesse considerazioni di Bellomo anche Azzetta nel suo commento, cit., pp. 367 e 435, senza tener conto dei valori consueti dei termini in questione.
[19] In generale, Bellomo tende a ridurre drasticamente i problemi che molti commentatori hanno invece considerato rilevanti: lo stesso Cecchini, spesso citato a conforto, deve ammettere che “la scarsa articolazione di alcune parti del prodotto […] può in definitiva spiegarsi con la subordinazione di esso a fini circoscritti e contingenti” (ed. cit., p. 42). Spiegazione che contiene un cortocircuito logico: siccome si è pregiudizialmente convinti che il testo sia dantesco, allora si attribuiscono a frettolosità tutti gli aspetti indegni dell’autore (ma perché, poi, Dante avrebbe dovuto essere approssimativo spiegando l’opera fondamentale della sua vita, dato che l’Epistola poteva andare in mano, oltre che a Cangrande, ai dotti veronesi e poi circolare ampiamente?); di fatto, se si ragionasse sempre in questo modo, qualunque falso potrebbe essere giustificato. Così si opera anche per casi palesemente non sanabili adducendo il mero desiderio di brevitas, per esempio quello della scarsa consequenzialità logica fra i §§ 38 e 39 dell’Epistola, segnalata di recente da Paolo Falzone: cfr. G. Sasso, Sull’Epistola a Cangrande, in “La Cultura”, LI, 2013, 3, p. 410, n. 137.
[20] Era quanto facevo notare nel mio contributo del 2014, non citato a questo proposito, mentre in Bellomo, L’Epistola…, cit., p. 8, mi viene invece attribuita un’ipotesi mai sostenuta (e a mio avviso insostenibile), e cioè che Guido da Pisa sarebbe il falsario dell’Epistola.
[21] In ogni caso, i legami si limiterebbero proprio all’accessus, perché Lana (che peraltro adotta lo schema delle quatuor causae e non quello dei sex inquirenda) non si serve dell’Epistola per l’esegesi del I canto del Paradiso: cfr. Iacomo della Lana, Commento alla ‘Commedia’, a cura di M. Volpi, con la collab. di A. Terzi, Roma, Salerno Ed., 2009, 4 tomi: IV, pp. 1682-1685 (debolissimi i riscontri con i §§ 42-43, che pure sono stati addotti come prova di una ripresa, mentre mancano precisi contatti intertestuali). Fra l’altro, né Lana né Guido menzionano una dedica della terza cantica a Cangrande. Resta poi da spiegare cosa potevano intendere i due commentatori trovando espressioni quali “per respectum ad ipsam partem oblatam” (§ 19) o “subiectum partis oblate” (§ 33), senza avere notizia della nuncupatio
[22] Sull’attestazione, da tempo messa in rilievo da Azzetta, si è da ultimo soffermato Ricklin, L’“Epistola…, cit., specie pp. 89-91, ponendo in rilievo la lacunosità della conoscenza dell’Epistola da parte di Lancia. Lo studioso dà però per scontata una conoscenza anche da parte del Lana (si vedano pp. 85 ss.), senza considerare in modo approfondito i casi confrontabili.
[23] In realtà il problema della valenza non allegorica del secondo subiectum era stato già posto da Giorgio Inglese (L’Epistola a Cangrande: questione aperta [1999], poi in Id., L’intelletto e l’amore, Firenze, La Nuova Italia, 2000, pp. 175 s.). Per la complessa giustificazione proposta da Bellomo, cfr. L’Epistola…, cit., pp. 17 s. La tendenza a individuare spiegazioni allegoriche si rinforza a partire dagli anni Trenta e culminerà nel Boccaccio delle Esposizioni, il quale poteva trovare importanti premesse proprio in Guido oltre che nell’accessus dell’Epistola, forse l’unica parte a lui nota, peraltro ancora una volta anonima: così sostiene L. Azzetta, Le “Esposizioni” e la tradizione esegetica trecentesca, in Boccaccio editore…, cit., pp. 275-292, specie 277-279 (dove si ridimensiona sin troppo il ruolo di Guido come antecedente: cfr. invece C. Delcorno, Gli scritti danteschi del Boccaccio, in Dante e Boccaccio. Lectura Dantis scaligera 2004-2005, a cura di E. Sandal, Roma-Padova, Antenore, 2006, specie pp. 114-116). Tuttavia Boccaccio era al corrente delle dediche a Cangrande, e quindi le già citate formule “per respectum ad ipsam partem oblatam” e “subiectum partis oblate” non potevano nel suo caso rimanere lettera morta e, con poco sforzo, avrebbero dovuto far intuire che solo Dante poteva essere l’estensore del singolarissimo accessus al Paradiso.
[24] Si rende conto della peculiarità lanea Luca Azzetta nella sua edizione dell’Epistola, cit., specie p. 425, ma ritiene che l’errore sia del commentatore bolognese, poiché il secondo valore sarebbe davvero allegorico, sulla base di un’interpretazione ‘larga’ dell’allegoria, iuxta il § 22 dell’Epistola (cfr. pp. 349 s.): ma un conto è affermare che esistono sensi genericamente allegorici, un conto è trovarne uno in un soggetto che è letteral-istoriale tanto quanto lo “status animarum post mortem” (nessuna differenza c’è, in effetti, fra il dire che si parla dello ‘stato delle anime dopo la morte’ oppure degli ‘uomini per come sono giudicati nell’aldilà’). Si tratta di uno dei tanti escamotage praticati dagli esegeti moderni per nascondere le effettive difficoltà testuali, che in questo caso si scontrano con un problema oggettivo, non affrontato da Azzetta: palesemente il secondo soggetto non è allegorico, ma l’Epistola invece recita “si vero accipiatur opus allegorice” (§ 25), e dunque è impossibile pensare che il Lana abbia “frainteso” la fonte, come vorrebbe il nuovo curatore, perché non c’era alcuna interpretazione da produrre, bastava leggere. Inappropriata, infine, l’osservazione di Azzetta (sempre p. 425) che “all’altro mondo” (ossia ‘nell’aldilà’) non sia adeguato nella frase del Lana, dato che è indispensabile a completarne il senso (si parla di come un uomo è premiato o punito nell’aldilà, non nella vita terrena).
[25] Epistola, § 39; corrisponde, sintetizzando, al § 9 di Guido da Pisa, ed. Rinaldi, p. 242; ma in questo caso la corrispondenza è pressoché perfetta con Lana, ed. Volpi, pp. 114 s. Si tratta comunque di formule interdiscorsive variamente ricomponibili, come dimostra la presenza sia nella Declaratio in volgare, sia nell’autoesegesi in latino di Guido: cfr. ed. Rinaldi, p. 992.
[26] Cfr. C. Ginzburg, Dante’s Epistle to Cangrande and Its Two Authors, in “Proceedings of the British Academy”, 139, 2006, pp. 195–216 (poi anche in altre versioni; il contributo è importante soprattutto per la pars destruens). Si veda anche Sasso, Sull’Epistola…, cit., specie pp. 371 ss. (articolo con molte acute intuizioni, che però risulta oscillante nella valutazione per l’impossibilità di assegnare una data verosimile all’Epistola). Alcune osservazioni opportune, assieme ad altre meno condivisibili, si leggono in L. Spagnolo, La lingua delle ‘muliercule’: ideologia preumanistica e questioni di autenticità nel Dante latino, in “La lingua. Storia, strutture, testi”, XI, 2015, pp. 37-65, specie 37-43 (con alcuni dubbi pertinenti sulla costituzione del testo dell’Epistola). Invece Bellomo, L’Epistola…, cit., p. 7, echeggiando posizioni già sostenute da Francesco Mazzoni, osserva che si tratterebbe di un’affermazione dirompente, e cita a riscontro l’Egloga II, vv. 52 s. (“Comica nonne vides ipsum reprehendere verba, / tum quia femineo resonant ut trita labello…”): ma non considera che lì Dante sta rispondendo ironicamente alle osservazioni di Giovanni del Virgilio, e quindi la posizione che presenta il volgare come lingua da ‘donnicciole’ è quella dell’interlocutore (e degli avversari), non certo quella di chi ne ha costantemente esaltato le potenzialità in tutti i suoi scritti autentici. Sulle posizioni del Lana (e in parte di Guido), cfr. anche M. Volpi, “Per manifestare polida parladura”, Roma, Salerno Ed., 2011.
[27] Per l’argomentazione puntuale, si veda ancora Dante oltre la “Commedia”, cit., pp. 34 ss., anche per un ridimensionamento dei presupposti neoplatonici danteschi. I tanti esempi proposti da Marco Ariani (si veda soprattutto Canto I. «Alienatus animus in corpore»: deificazione e ascesa alle sfere celesti, in «Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni. III. Paradiso. 1. Canti I-XVII», a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Salerno Ed., Roma, 2015, pp. 27-60) non consentono comunque un’esegesi puntuale del testo dantesco: si tratta di riferimenti interdiscorsivi proposti come intertestuali, ma senza prova di una lettura, da parte di Dante, delle opere portate a riscontro. Invece, S. Gilson, Medieval Optics and Theories of Light in the Works of Dante, New York, The Edwin Mellen Press, 2000, p. 245, n. 54, pur ipotizzando un rapporto fra l’inizio del Paradiso e lo pseudo Dionigi del De coelesti hierarchia per i riferimenti al ‘raggio divino’, riconosce che non ci sono prove certe di un avvicinamento di Dante proprio a quell’opera (e infatti i contatti sono interdiscorsivi). Che il termine “gloria” fosse inteso come decisivo e autonomo lo si può evincere persino dalle prime presentazioni, magari di modesta fattura, come il capitolo Però che sia più frutto e più diletto di Bosone da Gubbio che accompagnava spesso il testo del poema, e che al v. 178 (ed. Roediger 1888, p. 383), introducendo il Paradiso, recita: “Quivi la gloria di Dio tutta vede”. Si veda anche qui sopra, n. 9.
[28] Cfr. H.U. von Balthasar, Gloria, trad. it., Milano, Jaca Book, 1980, vol. VI, pp. 15 s. Per un’analisi storica della stratificazione di sensi, e addirittura di implicazioni culturali, che si è addensata sul termine nei primi secoli dopo Cristo, cfr. A.J. Vermeulen, The semantic development of Gloria in early-Christian Latin, Nijmegen, Dekker & van de Vegt, 1956, specie p. 182 (con la distinzione fra l’accezione di gloria come divinitas/natura divina, o come luminosità splendente p.e. di Cristo, o come beatitudine degli umani) e pp. 221 s. Che la ‘gloria’ non sia necessariamente legata a una manifestazione luminosa lo dimostrano passi come quello giovanneo sul primo miracolo di Gesù, che a Cana trasformando l’acqua in vino “manifestavit gloriam suam”, secondo la Vulgata di Gv. 2, 11. E si noti che le esegesi del Vangelo di Giovanni non indicano una totale equivalenza di ‘luce’ e ‘gloria’, nonostante la loro larga sovrapponibilità: così fa per esempio San Bonaventura, Commento al Vangelo di San Giovanni/1 (1-10), a c. di E. Mariani e J.G. Bougerol, Roma, Città Nuova, 1990, specie p. 78, dove il versetto “Et vidimus gloriam eius” suggerisce la glossa “scilicet quantum ad Divinitatem”, a indicare il nesso privilegiato gloria-essenza divina.
[29] Cfr. Bellomo, L’Epistola…, cit., p. 14. Per una discussione del passo, si rinvia al commento di Fioravanti, pp. 488 s., da cui si può evincere che “principio fontale” corrisponde di fatto al “fontalis lux” del Tractatus de luce del francescano Bartolomeo da Bologna, e ha un valore tecnico (‘fonte-origine della luce’), ben poco affine al polisemico e teologico “Gloria Domini”. Cfr. da ultimo F. Galli, “Sub lucis similitudine”. Ottica e teologia della luce in Bartolomeo da Bologna O.F.M., in “Lettere italiane”, LXV, 2013, pp. 537-562.
[30] Non insisto su questi punti, affrontati sistematicamente con molti altri in un articolo di Marco Signori Sulla distinzione di luce e gloria nel “Paradiso” dantesco (in “Italianistica”, XLV, 2016, 2, pp. 51-66): in esso sono esaminate varie altre obiezioni di Bellomo, e anche alcune osservazioni di Sasso, L’Epistola…, cit., specie p. 434, sulla possibile ambiguità della terzina incipitaria. Cfr. anche G. Inglese, Dante (?) a Cangrande. Postille, in “Giornale storico della letteratura italiana”, CXXXI, 2014, 1, pp. 121-123, dove sono esposti ulteriori motivi per la lettura a chiasmo della prima terzina. Non apporta un contributo originale sulle questioni qui affrontate il commento di Azzetta, cit., pp. 384-388, ad l.