Un contributo sulla “Questio de aqua et terra” attribuita a Dante
Si riporta qui il testo di un contributo uscito sulla rivista “Le forme e la storia” e dedicato al canto XXXIV dell’Inferno e ai suoi rapporti con la Questio de aqua et terra attribuita a Dante.
Alberto Casadei – Università di Pisa
Inf. XXXIV e Par. XXIX in relazione alla
Questio de aqua et terra
Ed elli a me: «Tu imagini ancora
d’esser di là dal centro, ov’io mi presi
108 al pel del vermo reo che ’l mondo fóra.
Di là fosti cotanto quanto scesi;
quando mi volsi, tu passasti il punto
111 al qual si traggon d’ogni parte i pesi.
E sè or sotto l’emisperio giunto
ch’è contraposto a quel che la gran secca
114 coverchia, e sotto ’l cui colmo consunto
fu l’om che nacque e visse sanza pecca;
tu ài i piedi in su picciola spera
117 che l’altra faccia fa de la Giudecca.
Qui è da man, quando di là è sera:
e questi, che ne fé scala col pelo,
120 fitto è ancora sì come prima era.
Da questa parte cadde giù dal cielo;
e la terra, che pria di qua si sporse,
123 per paura di lui fé del mar velo,
e venne a l’emisperio nostro; e forse
per fuggir lui lasciò qui luogo vòto
126 quella ch’appar di qua, e sù ricorse».[1]
1. Nella seconda parte del canto XXXIV dell’Inferno, a partire dal v. 88, la narrazione conduce Dante e Virgilio nell’emisfero australe, al di là del centro della terra e quindi finalmente in ascesa sia pure a fatica. La collocazione nella “natural burella”, ovvero in una caverna non molto ampia e oscura, è del tutto transitoria, dato che il peregrino e la sua guida devono affrettarsi a risalire sino alla superficie, dove Dante potrebbe immaginare di trovare solo acque oceaniche: per le convinzioni geologiche e geografiche diffuse, a sud dell’equatore terrestre non poteva esserci altro che mare, benché l’allusione di Ulisse al suo aver scorto una montagna elevata quanto nessun’altra (cfr. Inf. XXVI 133-135) in un punto dell’emisfero australe preannunciasse una notevole sorpresa rispetto a questa convinzione.
Alle consuete richieste di chiarimento (Inf. XXXIV 100-105), Virgilio risponde con un sapere a suo modo scientifico, e quindi coinvolgendo nozioni di astronomia (cfr. vv. 112 ss.), unite però indissolubilmente ai presupposti biblici e a quelli filosofici che non possono entrare in contraddizione palese con i precedenti, pena la smentita degli uni o degli altri. Qui e in tutto il poema le spiegazioni di Virgilio-personaggio, come poi quelle di Beatrice-personaggio, entrano in cortocircuito con le supposizioni o le teorie diffuse all’inizio del Trecento, e non vanno derubricate a banali ‘allegorie dei poeti’: la veridicità del dettato deve essere in prima istanza garantita; un’eventuale correzione potrebbe avvenire solo su un piano intellettuale superiore (la teologia che chiarisce in modo definitivo quanto intuito razionalmente), non certo facendo considerare meramente fittizie le affermazioni di quello che, negli ultimi canti del Paradiso (cfr. soprattutto XXIII 62 e XXV 1), diventerà nel suo insieme un “poema sacro”[2].
Queste premesse risultano indispensabili quando si affronta la sostanza del contenuto di questo poema: la sua veste retorico-stilistica, che sia umile e comica come nell’Inferno o sempre più sostenuta e addirittura eccelsa (da ‘teodia’ non da ‘comedia’) nel corso del Paradiso, non è mai tale da inficiare la veridicità delle affermazioni, spesso del tutto innovative o comunque non riducibili a dottrine già esposte: basti pensare, nel canto II del Paradiso, alla spiegazione della natura delle macchie lunari (vv. 46 ss.), che non vuole certo risultare una semplice divagazione priva di autorevolezza: se, per assurdo, esistesse un trattato scientifico di Dante sulle macchie lunari contemporaneo al periodo di stesura del canto, ma contenente teorie diverse da quella esposta da Beatrice, saremmo costretti ad ammettere che il poema sacro mente o è infondato riguardo ai fenomeni reali[3]. Allo stesso modo, e sia pure in una forma piuttosto ellittica e semplificata, nei versi dedicati alla formazione del Purgatorio si vuole affermare una verità compatibile con le affermazioni bibliche, che non può tuttavia risultare inconciliabile a priori con quella fondata su osservazioni dei fenomeni naturali e deduzioni logiche di tipo aristotelico. D’altronde persino il Dante ‘razionalista’ del Convivio, dopo aver riassunto le teorie aristotelico-tolemaiche sui nove cieli (in II iii), ritiene indispensabile menzionare e accettare l’esistenza del decimo o Empireo, con le sue caratteristiche essenzialmente teorico-filosofico-teologiche, “secondo che la Santa Chiesa vuole, che non può dire menzogna” (cfr. § 10)[4].
2. Che cosa afferma dunque il poema sacro riguardo alla creazione e ubicazione della montagna del Purgatorio (per quanto sappiamo, descritta in termini peculiarmente danteschi)[5]? In primo luogo (vv. 112-115), che essa si trova nell’emisfero australe, il più nobile dei due della terra, e che di fatto è ‘contrapposta’ alla “gran secca”, ovvero alle terre emerse dell’emisfero boreale: più esattamente deve trovarsi agli antipodi di Gerusalemme, dove fu condotto al martirio Cristo, esattamente sotto il “colmo”, lo zenith del suo emisfero (così come l’Eden si trova sotto lo zenith dell’emisfero corrispondente)[6]. Più in particolare (vv. 116 s.), per il momento Dante e Virgilio si trovano sulla parte meridionale di una “picciola spera” che è l’altra faccia della Giudecca: e quindi si deve ipotizzare che Lucifero si trovi incastrato non esattamente al centro della ‘terra’, bensì di una sfera (o semisfera) interamente di ghiaccio, che risponde sia a una concezione perfettamente rotonda della terra (anche nel suo nucleo più profondo) e dei cieli sovrastanti, più volte ribadita a partire almeno da Conv. II iii (dove spera vale ‘cielo’) e ovviamente lungo tutto il Paradiso; sia al fatto che la terra, in quanto elemento, aveva voluto evitare ogni contatto con Lucifero, come si dirà subito dopo (vv. 122 ss.), e quindi non essa bensì l’acqua privata di ogni mobilità e vitalità lo doveva circondare. La “picciola spera” di ghiaccio è quindi una soluzione geniale sia da un punto di vista scientifico che da uno allegorico-teologico[7].
Nei vv. 121-126 Virgilio-personaggio sintetizza un evento decisivo nella storia ebraico-cristiana, ovvero la caduta del più luminoso e bello fra gli angeli, ribellatosi ‘quasi immediatamente’ a Dio e caduto dal più alto dei cieli nel centro della terra, come esplicitamente affermato in Is. 14.12-15 (“Quomodo cecidisti de coelo, Lucifer? […] corruisti in terram […] ad infernum detraheris in profundum laci”; e cfr. anche Par. XIX 48): la breve spiegazione vuole quindi essere innanzitutto compatibile con il racconto biblico. Allo stesso modo lo sarà quella di Beatrice in Par. XXIX 49-57:
Né giugneriesi, numerando, al venti
sì tosto, come de li angeli parte
turbò il suggetto d’i vostri alimenti. 51
L’altra rimase, e cominciò quest’ arte
che tu discerni, con tanto diletto,
che mai da circüir non si diparte. 54
Principio del cader fu il maladetto
superbir di colui che tu vedesti
da tutti i pesi del mondo costretto.
Dove di nuovo si parla della ribellione degli angeli, questa volta però tenendo conto maggiormente di Apoc. 12.7 (secondo la Vulgata: “et proiectus est draco ille magnus, serpens antiquus, qui vocatur diabolus et Satanas, qui seducit universum orbem, et proiectus est in terram, et angeli eius cum illo missi sunt”): infatti, in questi versetti si allude alla caduta del “Dragone”, fatto implicitamente coincidere con Lucifero (come si ricava dai vv. 55-57 sopra citati), ma anche di altri angeli con lui. Questo gruppo (“parte”) di angeli ribelli e scagliati verso il basso turba “il suggetto d’i vostri alimenti” (Petrocchi), ovvero “il subietto de’ vostri elementi” (Sanguineti), che non può significare altro che la terra nel suo insieme, eventualmente persino al di là del punto dove cadde Lucifero, che comunque “conturbavit terram” (Is. 14.16): e l’espressione viene quasi ‘tradotta’ usando in senso metaforico un sintagma filosofico[8]. Gli angeli caduti possono al massimo aver modificato la prima configurazione degli elementi, e specialmente della terra, così come poi il peccato di Adamo ed Eva farà modificare la condizione degli esseri umani.
3. A questo punto si arriva ai versi più discussi in questa esposizione dantesca. Infatti, mentre il versetto biblico e anche Par. XXIX 51 parlano genericamente di un ‘turbamento terrestre’, quelli dell’Inferno ora in esame indicano che “la terra che pria di qua si sporse” si sommerse e “venne a l’emisperio nostro”, ossia quello boreale; mentre altra terra, quella che ha lasciato il “luogo vòto” attorno a Virgilio e Dante (“qui”) è risalita in superficie nell’emisfero australe. Sul valore di perfetto del verbo “si sporse” e sul valore della relativa del v. 122, da intendersi come restrittiva e non appositiva (andrebbero perciò eliminate le virgole), ha insistito Veronica Mele, con un’ampia serie di riscontri[9]. In base a questi, la spiegazione diffusa del v. 122, ossia che tutta la terra si spostò da un emisfero all’altro, andrebbe quanto meno meglio definita: si può intendere infatti che la terra emersa, nel suo insieme e implicitamente contrapposta alla terra sommersa, era in origine solo nell’emisfero australe, mentre quella che lì si vede adesso era terra sommersa che in fretta corse (“ricorse”, come notano i vocabolari, ha valore intensivo) in superficie a parziale sostituzione della precedente, spostatasi nell’emisfero boreale. In questo modo i vari elementi della frase sono rispettati, perché la relativa del v. 122 rimarrebbe restrittiva (la terra che era emersa in questa parte del mondo, e non tutta la terra), e comunque l’esito manterrebbe le caratteristiche di un cataclisma completo che, in un racconto dantesco di tipo esegetico-sapienziale, completava alcune lacune del libro della Genesi e di altri passi biblici.
Sul piano strettamente linguistico, tuttavia, risulta possibile intendere il v. 122 come ancor meglio delimitato, ossia riferito alla “parte di terra emersa” in un primo tempo nell’emisfero australe, con il sottinteso che si tratta di una parte di tutte le terre emerse e non di tutta la terra emersa[10]. Un’ulteriore spiegazione dei versi Inf. XXXIV 121-126 sarebbe allora la seguente: “Lucifero cadde dal cielo provenendo dall’emisfero australe; la parte di terra che si sporse (o si era sporta) precedentemente in questo emisfero si sommerse sotto il mare per paura dell’angelo ribelle e riemerse nell’emisfero boreale (aggiungendosi a quella che già lì si trovava); quella specifica parte (sotterranea) che ora appare nell’emisfero australe (e quindi vediamo già qui intorno), forse pure per evitare il contatto con Lucifero, lasciò in questo punto (qui) una caverna (luogo vòto, la “natural burella” del v. 98 e anche la “tomba”, ovvero volta sotterranea, del v. 128), e riemerse sopra il mare”, formando la montagna del Purgatorio.
Questa spiegazione alternativa, anch’essa rispettosa dell’uso temporale (“si sporse” come perfetto esprimente un’azione o condizione puntuale, e non uno stato prolungato) e sintattico (perché conserva una simmetria fra “la terra che” del v. 122 e “quella che” del v. 126), consente di non dover ipotizzare uno sconvolgimento totale del creato: in effetti, se accettiamo l’interpretazione più diffusa, dobbiamo anche sostenere che la creazione divina è stata sconvolta dal demonio e che la terra si trova nella quarta abitabile o “gran secca” solo per gli effetti di un’azione diabolica. Invece, Dante poteva immaginare che, in origine, tanto l’emisfero boreale quanto quello australe presentassero terre emerse e che una parte, prima sotto le acque, rimase in quell’emisfero nonostante la caduta degli angeli ribelli e senz’altro in base a un imperscrutabile volere divino: lo scopo era appunto quello di formare il Purgatorio, quindi la zona dove ci si potrà liberare dai peccati non mortali, alla cui sommità addirittura sarà collocato l’Eden. Nello stesso tempo, se anche l’emisfero boreale possedeva secondo il piano divino le sue terre emerse, il fatto che a esse si aggiungessero quelle australi non costituiva uno sconvolgimento totale: Dio doveva aver poi creato Adamo usando una creta derivata da tutte le terre emerse (come sostenevano in vario modo alcuni esegeti biblici), e in seguito lo aveva trasportato nell’Eden, certamente dopo il sorgere della montagna purgatoriale[11].
Qualche corollario. Si dice che la spiegazione di Virgilio potrebbe essere imprecisa, dato che egli, pagano, non sarebbe a conoscenza dell’effettiva genesi del Purgatorio (di qui il “forse” del v. 124), ma andrebbe piuttosto notato che Dante limita l’esposizione del suo personaggio alla descrizione dei fenomeni avvenuti alle terre dell’emisfero meridionale, mentre non parla del sorgere effettivo della montagna. Esso viene specificato nelle parole di Matelda riguardanti in primis il Paradiso terrestre: in Purg. XXVIII 97-102 si afferma che esso è privo dei turbamenti atmosferici perché “questo monte salìo verso ’l ciel tanto” (v. 101), e il verbo ‘salire’, ancora una volta al perfetto, indica esattamente l’azione che la terra ha compiuto una volta che si è allontanata dal contatto con Lucifero, con un suo movimento autonomo e però, al fondo, voluto da Dio per riparare allo stravolgimento generato dalla caduta e per trovare una collocazione all’uomo e alla donna che stavano per essere creati[12].
4.1. Abbiamo dovuto integrare con varie spiegazioni i versi danteschi, ma ciò era inevitabile dato che essi non vogliono fornire tutti i dettagli di un racconto dei primordi della creazione bensì alcuni suoi momenti essenziali: risulta quindi improprio chiedere a Dante una serie di informazioni che non era intenzionato a dare (per esempio la ‘cronologia’ esatta degli eventi evocati), o far notare che a volte potrebbero emergere contraddizioni, perché ciò avviene solo per la mancanza di alcuni tasselli o di effettivi legami fra parti distanti ed elaborate a grande distanza di tempo. Ma devono essere accettate le spiegazioni che garantiscono una coerenza di fondo al racconto dantesco nel poema (nella fattispecie, una delle due sopra proposte), indipendentemente da eventuali incongruenze segnalabili in maniera inferenziale: viceversa, dubbi dovrebbero sorgere se, magari appoggiandosi ad altri testi attribuiti a Dante, si evincesse che la narrazione del ‘poema sacro’ era ab origine fallace.
È quanto per l’appunto accade se si deve considerare autentica la cosiddetta Questio de aqua et terra. Prima di entrare nel merito, occorre rilevare che sono molti i dubbi ancora irrisolti intorno a questo testo, nonostante le ormai numerose edizioni commentate[13]. Osserviamo intanto i problemi che richiederebbero notevoli approfondimenti.
4.2. Da un punto di vista storico, il testo sembrerebbe far intendere che la questio sulle rispettive altezze dell’acqua e della terra sarebbe stata posta a Mantova, quando Dante lì si trovava (in un periodo imprecisato, presumibilmente nel 1319), ma sarebbe poi stata determinata a Verona, in una data e in un luogo esplicitamente indicati: il cosiddetto Sacello di S. Elena, inserito nel complesso del Duomo veronese, il 20 gennaio del 1320. Questo almeno sembrerebbe garantire il frontespizio dell’edizione in cui si legge “Questio […] olim Mantuae auspicata, Veronae vero disputata et decisa”; in realtà però, i paragrafi iniziali del trattatello (I 2-3), parecchio vaghi sull’effettivo svolgimento cronologico, lascerebbero anche la possibilità di intendere che Dante sia intervenuto per determinare già a Mantova, e che poi abbia ripreso e determinato definitivamente la quaestio, anche per iscritto, a Verona, come fa sapere solo in conclusione (XXIV 87-88)[14].
Ma di un così importante evento, che vedeva protagonista un autore ormai celebre e caro all’ambiente scaligero, non abbiamo alcuna notizia documentaria se non il riferimento ricavabile dalla cosiddetta terza redazione del commento al poema redatto da Pietro Alighieri, conservato in copia unica nel ms. Vat. Ottob. Lat, 2867 assegnato al 1467 (ma il testo risalirebbe al 1358-64 circa), su cui torneremo. Si noti inoltre che nessuno studioso è sinora stato in grado di segnalare un esempio di quaestiones poste da un magister e determinate da altra persona, per di più forse in città diverse[15].
Quanto all’ipotetica premessa mantovana, occorre dire che la città lombarda poteva essere fervida da un generico punto di vista ‘culturale’, ma non si hanno attualmente sicuri riscontri su chi era lì (ma dove, esattamente?) in grado di proporre una specifica quaestio (e sarebbe forse la prima volta) su un problema astronomico-scientifico che vantava già una lunga tradizione e che però non aveva in Mantova cultori celebri, almeno all’inizio del XIV secolo. Viceversa, a Verona non solo risiedeva stabilmente Antonio Pelacani, che proponeva in quegli stessi anni una soluzione innovativa del problema, peraltro non confutata nel corso della Questio attribuita a Dante, ma si trovavano anche numerosi e colti agostiniani eremitani, sostenuti da un vescovo appartenente al loro ordine, Teobaldo, i quali invece potevano trovare una teoria almeno in parte affine a quella presuntamente dantesca nelle opere del loro grande intellettuale Egidio Romano[16].
4.3. Dal punto di vista della trasmissione del testo, occorre dire che la prima notizia certa della circolazione della Questio lascia perplessi: infatti, a prescindere dall’attribuzione della citata terza redazione del commento di Pietro, che sembra proporre modifiche incompatibili con una revisione d’autore[17], è da notare che lo stesso figlio di Dante non avrebbe certo dovuto attendere l’ultima fase della sua vita per ottenere un’informazione così rilevante. Pietro era con il padre almeno dalla seconda metà degli anni Dieci, e tutto lascia pensare che nel 1319-20 soggiornassero assieme a Ravenna. Anche ipotizzando un viaggio invernale del solo Dante fra Mantova e Verona (ma la cronologia interna delle Egloghe scambiate con Giovanni del Virgilio farebbe pensare a una stanzialità ravennate)[18], risulta del tutto antieconomico congetturare che Pietro rimanesse all’oscuro di un evento onorevolissimo per suo padre. Sembra quindi anche da questo punto di vista più verosimile che la notizia sia stata inserita da altri, ma ciò diminuisce la sua autorevolezza, e in ogni caso occorre ammettere che, sino agli anni Sessanta del XIV secolo, nessuno fra i numerosi cultori di Dante era a conoscenza della Questio: lo stesso Boccaccio, che redige, com’è noto, un elenco di tutte le opere attribuite a Dante (Trattatello I red., ed. Ricci, §§ 195 ss.), e che aveva ricevuto notizie di prima mano, se non dai familiari, almeno da amici vicini al poeta alla fine della sua vita, non ne fa mai menzione.
Delle evidenti mende del testo si sono già dovuti occupare numerosi interpreti: gli elementi paratestuali appaiono da un lato lacunosi[19], dall’altro sin troppo volutamente espliciti, per esempio là dove viene garantito che il testo è scritto di suo pugno dall’autore (“in hac cedula meis digitis exarata”: Questio I, 3), oppure nel finale, quando la data viene definita in vari modi, ma non tenendo conto di quello ab incarnatione, ovvero della cronologia more florentino[20]. Né è possibile stabilire una tempistica complessivamente perspicua: anche volendo accettare quanto dice il testo pervenutoci, non si sa in effetti quando Dante abbia soggiornato a Mantova, e quindi abbia assistito all’avvio della discussione sul problema, né quando materialmente abbia poi scritto il complesso trattatello in forma di epistola, che con ogni evidenza avrebbe richiesto numerosi controlli e verifiche.
Si noti poi che, come già accennato (cfr. n. 14$), l’unico testimone attualmente noto dell’operetta è la stampa curata dall’agostiniano Giovanni Benedetto Moncetti nell’ottobre del 1508 per i tipi di Manfredo Bonelli (Manfredus de Monferrato): il libello è stato dedicato a Ippolito d’Este, ma il frate era ben più vicino alla signora di Mantova, Isabella d’Este Gonzaga, ed era propenso alle rielaborazioni come tutti coloro che, oltre a emendare i testi per introdurre ‘migliorie’ tipografiche, volevano portare un omaggio gradito e non solo erudito ai potenti (e ben più gradito poteva essere un evento dantesco collocato a Mantova prima che a Verona)[21].
A livello stilistico, si sono voluti indicare come caratteristici alcuni tratti, magari singolari in una Quaestio ma non per questo esclusivi del poeta: per esempio, a molti è apparso dantesco l’uso spazientito di “Desinant” in XXII 77 (“Desinant ergo, desinant homines…”), e si possono forse trovare analogie con movenze del Convivio (peraltro sicuramente noto a Verona e impiegato da Pietro già nella prima redazione del suo commento)[22]; ma basta leggere nell’Hexameron di Ambrogio (III ii 7, ed. Schenkl) quanto si dice sul passo del Genesi relativo alla separazione fra terre e acque per ritrovare lo stesso verbo in funzione analoga (“Desinant ergo nobis…”).
4.4. Problemi non meno gravi emergono là dove si analizzano le affermazioni contenute nella Questio. Al di là della forte compatibilità con posizioni sostenute in opere di Egidio Romano (di fatto, uno degli idola polemici della Monarchia), o di Campano da Novara o nel De sphaera del Sacrobosco, facilmente reperibile[23], dall’esposizione si ricava che il ‘determinatore’ ribadisce in più luoghi la totale assenza di terre emerse nell’emisfero australe (cfr. Questio II 4; XIX 51 ss.). Ma si veda soprattutto XX 67: la luna avrebbe dovuto produrre un innalzamento anche nell’emisfero antartico “quod non est factum”, quindi implicitamente si nega ogni tipo di elevazione della terra nel polo antartico in qualunque epoca, se le ragioni fossero esclusivamente scientifiche. Se si considera valida la seconda interpretazione di Inf. XXXIV 121-126 sopra proposta, questo assunto risulta incompatibile, perché crea una contraddizione insanabile fra i presupposti scientifici professati da Dante e il suo racconto, che riferirebbe eventi impossibili a realizzarsi.
Ma anche se si accetta l’interpretazione che implica un completo spostamento delle terre emerse da Sud a Nord, il testo della Questio ripropone lo stesso problema. Infatti in XXI 75-76 si legge:
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75 |
Sed tunc arguetur magis et queretur: quare potius elevatio emisperialis fuit ab ista parte quam ab alia? Et ad hoc est dicendum sicut dicit Philosophus in secundo De Celo, cum querit quare celum movetur ab oriente in occidens et non e converso: ibi enim dicit quod consimiles questiones vel a multa stultitia vel a multa presumptione procedunt, propterea quod sunt supra intellectum nostrum. |
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Et ideo dicendum ad hanc questionem quod ille dispensator Deus gloriosus, qui dispensavit de situ polorum, de situ centri mundi, de distantia ultime circumferentie universi a centro eius, et de aliis consimilibus, hec fecit tanquam melius, sicut et illa. Unde, cum dixit: “congregentur aque in locum unum, et appareat arida” simul et virtuatum est celum ad agendum et terra potentiata ad patiendum. |
Da questi passi si evince facilmente che l’autore della Questio è convinto che Dio, come per altre sue decisioni imperscrutabili ed eterne, abbia voluto ab origine che la terra emergesse nell’emisfero boreale, senza nessun accenno a modifiche nella sua creazione, che oltretutto avrebbero implicato anche quella dell’azione delle stelle fisse, ancora una volta da Sud a Nord e ancora una volta andando incontro a incongruenze sul piano appunto scientifico.
5. Al di là di altri dettagli non irrilevanti[24], questi assunti basterebbero a far regredire ad allegorie o fantasie da poeti le affermazioni contenute in quello che, negli stessi mesi (nei canti XXIII e XXV della terza cantica, scritti all’incirca nel 1320, quasi certamente a Ravenna: cfr. n. 18$), veniva definito “poema sacro”. Infatti, non sarebbe in alcun modo sostenibile che la terra era emersa anche nell’emisfero australe ed era lì in parte rimasta per formare la montagna del Purgatorio: l’influsso diretto del cielo delle stelle fisse avrebbe materialmente realizzato la particolare e deforme emersione della ‘quarta abitabile’ soltanto nell’emisfero boreale, il che risulta in sé difficilmente compatibile con l’azione momentanea e violenta descritta in Inf. XXXIV 121-126 e sostanzialmente ribadita, senza alcun cambiamento di fondo, in Par. XXIX 49-57; ma l’incompatibilità diventa totale se si accetta che quel luogo dell’Inferno indica implicitamente che, prima della caduta di Lucifero, esistevano terre emerse tanto nell’emisfero boreale quanto in quello australe, come si induce dall’esegesi semantica e sintattica sopra proposta. Dunque, se Dante è l’autore della Questio, occorre ipotizzare che la sua proclamazione della sacralità del poema, appunto nel 1320 circa, è unicamente un espediente retorico, dato che nello stesso periodo storico la sua posizione di ‘scienziato’ produrrebbe, almeno indirettamente, una smentita non sanabile del suo testo: il Purgatorio non si sarebbe mai potuto formare, i cieli svolgerebbero un’azione ben diversa da quella esposta, con evidenti ambizioni teologiche, in Par. XXVIII e XXIX, ecc.[25].
Il percorso, come si vede, è solo all’inizio e occorreranno adesso numerose verifiche documentarie e testuali per poter procedere[26]. In ogni caso, se non si vuole collocare, come sembrerebbe prudente, l’opera fra le Dubbie, si dovrà alla fine fornire un’ipotesi complessiva ed economica sui motivi per cui Dante avrebbe determinato a Verona una Quaestio posta a Mantova, che risolverebbe seguendo su vari punti teorie e congetture ben attestate nell’ambiente agostiniano, dominante all’inizio del Trecento a Verona, le quali risultano fondamentalmente in contrasto con la lettera o il senso di vari passi del suo poema sacro.
alberto.casadei@unipi.it
[1] Una prima versione di questo lavoro è uscita in « Le Forme e la Storia », n.s. IX, 2016, 2, pp. 299-315. Ringrazio Gianfranco Fioravanti e tutti i partecipanti al Workshop sulla Questio, tenutosi presso la Società Dantesca a Firenze il 10 maggio 2017, che mi hanno fornito nuovi e importanti spunti di riflessione, che saranno presentati in una versione ampliata. Il passo di Inf. XXXIV (vv. 106-126) è stato citato secondo la nuova edizione critica (che prende a base il codice Florio ora a Udine, quasi ‘gemello’ dell’Urb. Lat. 366 ma con una patina linguistica settentrionale meno accentuata) a cura di P. Trovato: cfr. Saggio di edizione critica di Inf. XXXIV, II ed., estratto anticipato da Dante, Inferno, a cura di P. Trovato e E. Tonello, commento di L. Ferretti Cuomo, Padova, LibreriaUniversitaria.it, 2016. Per il passo di Par. XXIX 49-75 e per tutti gli altri riferimenti al poema si seguirà l’edizione critica a cura di G. Petrocchi (Milano, Mondadori, 1966-1967), riscontrata con quella a cura di E. Sanguineti (Firenze, Sismel-Edd. del Galluzzo, 2001). Fra i commenti, si segnalano particolarmente quelli a cura di A.M. Chiavacci Leonardi, Milano, Mondadori, 1991; G. Inglese, Roma, Carocci, 2007; R. Hollander, trad. it. Firenze, Olschki, 2011; S. Bellomo, Torino, Einaudi, 2013; L. Ferretti Cuomo, cit., specie pp. 28-31. Edizioni e/o commenti della Questio consultati: a cura di G. Boffito, Firenze, Olschki, 1905; V. Biagi, Modena, Vincenzi, 1907; F. Angelitti, Palermo, R. Osservatorio astronomico, 1915; G. Padoan, Firenze, Le Monnier, 1968 (col titolo De situ et forma aque et terre); F. Mazzoni, in Dante, Opere minori, Milano-Napoli, Ricciardi, 1979, II, pp. 691-880; M. Pastore Stocchi, in Dante, Epistole, Ecloge, Questio de situ et forma aque et terre, Roma-Padova, Antenore, 2012, pp. 217-275; M. Rinaldi, in Dante, Epistole, Egloge, Questio de aqua et terra, a cura di M. Baglio et alii, Roma, Salerno Ed., 2016, vol. V della Necod, pp. 653-770 (edizione di riferimento). Dopo l’uscita della prima versione di questo lavoro, è stato pubblicato il commento a cura di S. Caroti (E-Theca, 2017, doi 10/14640/ QuadernidiNoctua4), di cui si è tenuto conto in fase di revisione. Per una presentazione sintetica, si veda la voce dell’Enciclopedia Dantesca (voll. 5+Appendice, Roma, Ist. Encicl. Ital. Treccani, 1970-1978; d’ora in poi = ED, consultata online dal sito www.treccani.it), a cura di M. Pastore Stocchi. Quanto al titolo, per mere ragioni di chiarezza si userà quello vulgato. Si citano il Convivio dall’edizione a cura di G. Fioravanti, canzoni a cura di C. Giunta, in Dante, Opere, cit., pp. 3-805, e le Egloghe dall’edizione a cura di G. Albanese, ivi, pp. 1593-1783. Lecturae: da ultimo, anche per la bibliografia pregressa, si cita quella di P. Manni, in Cento canti per cento anni, a cura di E. Malato e A. Mazzucchi, Inferno, tomi 2, II, Roma, Salerno ed., 2013, pp. 1091-1115, che però non affronta i problemi qui esaminati.
[2] Sul sintagma torna ora F. Rossi, “Poema sacro” tra Dante e Macrobio: una verifica sulla tradizione italiana dei “Saturnalia”, in “L’Alighieri”, 2017, c.d.s., con ottime osservazioni riguardo alla nozione di sacralità delle opere letterarie. Il problema dello statuto di veridicità di un’opera che si autodefinisce ‘sacra’ va comunque affrontato sistematicamente, in rapporto alle autentiche riflessioni d’autore: non va considerata l’Epistola a Cangrande, con ogni probabilità falsa nella sezione esegetica, mentre va ricordato che il lacunoso e in buona parte scolastico esordio di Conv. II i 2-8 è finalizzato a coonestare il tipo di commento che Dante proporrà sulle sue canzoni; molto più interessante è il passo di Mon III iv 6-11 dove in sostanza si affronta la questione già agostiniana della corretta interpretazione del senso letterale, di per sé veridico. Su quella base non dovrebbe essere possibile invocare sensi allegorici o mistici, di qualunque tipo, per sanare presunte contraddizioni fra risultanze ‘scientifiche’, magari esposte in altre opere (come appunto la Questio), e affermazioni contenute in un poema sacro che aspira a una credibilità completa da parte del lettore perché realizzato da uno scriba Dei, ossia un poeta che è stato ispirato dal Dio cristiano e ha profuso tutta la sua sapienza nel realizzare un’opera in primo luogo letteralmente e stilisticamente perfetta. Su ciò si tornerà qui più avanti, nonché in ulteriori contributi.
[3] E invece, rispetto alle posizioni nel Convivio sull’argomento (cfr. Conv. II xiii 9-10), peraltro non divulgate ma sintetizzate in Par. II 59-60, Dante esprime con chiarezza i motivi del suo stesso superamento sul piano scientifico, in virtù di un punto di vista teologico superiore (e semmai resterebbe da determinare una diversa spiegazione scientifica compatibile con quest’ultimo). Sull’effettiva integrazione dei saperi e delle teorie in Dante, cfr. G. Stabile, Dante e la filosofia della natura, Firenze, Edd. del Galluzzo, 2007, specie pp. 137-172. Per il nostro passo, fondamentale tuttora resta B. Nardi, La caduta di Lucifero e l’autenticità della “Quaestio de aqua et terra” (1959), ora in Lecturae e altri studi danteschi, a cura di R. Abardo, Firenze, Le Lettere, 1990, pp. 227-265. Da ultimo, con ipotesi che sembrano suggerire soluzioni conciliative, si veda M. Gallarino, Metafisica e cosmologia in Dante: il tema della rovina angelica, Bologna, il Mulino, 2013, utile per la discussione della bibliografia pregressa.
[4] Per il commento al passo, si veda l’ed. a cura di G. Fioravanti, cit., pp. 228-241. Segnaliamo già qui che, in riferimento all’esposizione di Inf. XXXIV 121-126 riguardo alla caduta di Lucifero e alle sue conseguenze, molti commentatori sostengono la compatibilità con la Questio de aqua et terra con la sbrigativa motivazione della sostanziale differenza fra verità poetica e verità scientifica, del tutto insufficiente se non si vuole affermare che Dante stesso ritenesse il suo poema in tutto o anche solo in parte un’allegoria dei poeti: si veda per esempio il commento all’Inferno di S. Bellomo, cit., p. 555. Ma su ciò si tornerà più avanti.
[5] Da questo punto di vista, il primo riferimento resta J. Le Goff, La nascita del purgatorio (1981), trad. it. Roma-Bari, Laterza, 1982 (e successive riedizioni); ma si vedano le critiche della recensione di F. Livi (“Studi cattolici”, 272, 1983, pp. 634-637) e le precisazioni di M.P. Ciccarese, La nascita del purgatorio, in « Annali di Storia dell’Esegesi », 17 (2000), pp. 133–150. Ancora importanti le osservazioni di B. Nardi, Il mito dell’Eden, in Saggi di filosofia dantesca, Firenze, La Nuova Italia, 19672, pp. 311-340, nonché le osservazioni di G. Padoan nell’Introduzione al suo commento, cit., sulla veridicità dell’esistenza del Purgatorio (specie pp. xxviii s.).
[6] Pur essendo molto controversa, l’interpretazione preferibile è senz’altro quella che fa riferimento agli emisferi celesti e non a quelli terrestri, perché colmo può avere la valenza di ‘culmine’ o affini (cfr. la voce di A. Mariani in ED), ma non sembra poter acquisire, nell’usus dantesco, un senso metaforico o metonimico per indicare un monte (quello di Sion? Così P. Pecoraro, Le stelle di Dante, Roma, Bulzoni, 1987, pp. 185-189) o altra altura terrena. Nell’ambito della ‘memoria interna’ almeno a livello di significanti, cfr. Purg. II 1-3 (“Già era ’l sole all’orizzonte giunto / lo cui meridian cerchio coverchia / Ierusalèm col suo più alto punto…”): dove “più alto punto” corrisponde in effetti al “colmo” del nostro passo. Sulle necessarie distinzioni rispetto agli emisferi terrestri con al centro i due poli, cfr. Nardi, Lecturae, cit., p. 87; Stabile, Dante…, cit., p. 157; commento di G. Inglese, cit., p. 380.
[7] Risulta improbabile un forte spostamento di campo semantico che Dante avrebbe adottato solo in questo caso, usando spera col valore di ‘superficie piana e liscia’, come indicato in numerosi commenti. Per gli usi danteschi del vocabolo si rimanda all’ancora validissima voce curata da Maurizio Dardano per l’ED. Una nota a margine sui colori delle tre facce di Lucifero, cioè il vermiglio, il bianco-giallo e il nero (cfr. vv. 39-45). Al di là delle plausibili valenze antitrinitarie, spesso sottolineate nei commenti, bisogna forse anche ricordare che si parla di quello che un tempo era il più bello fra gli angeli, i quali, iuxta Par. XXXI 13-15, hanno facce di “fiamma viva”, ali “d’oro” e il resto della figura “bianco”-candido: i volti di Lucifero ripropongono quei colori depotenziati o addirittura ‘rovesciati’ (il candido diventato nero), quasi a ribaltare le facoltà iniziali, in genere indicate come ardore di carità, sapienza e potenza.
[8] Qui è impossibile intendere il subiectum elementorum come la “materia prima”, che è stata formata inizialmente da Dio, iuxta Genesi 1 ss., e poi, al momento della sua separazione nei quattro elementi terrestri, dalle virtù angeliche e dai cieli relativi, secondo quanto affermato in Par. VII 133 ss.; sull’azione delle ‘virtù informanti’, che qui si intende essere cominciata simultaneamente a quella negativa dei ribelli (cfr. Par. XXIX 52: la parte buona “rimase e cominciò” la sua arte), ancora fondamentale Nardi, Lecturae…, specie pp. 233-241; fornisce invece una diversa e non accettabile interpretazione il recente commento di G. Inglese (Paradiso, Roma, Carocci, 2016, p. 360). Ma la complessa questione è riconsiderata da Gallarino, Metafisica…, cit., pp. 88-132, che giunge ad affermare la compatibilità fra i passi di Inf. XXXIV e Par. XXIX, contrapponendosi alle posizioni di Mazzoni nel suo commento, cit., specie p. 725. Quanto all’uso di “conturbavit”, nel contesto biblico il verbo non può indicare un cataclisma, essendo seguito da “concussit regna”, a indicare le azioni malvagie del demonio (o di un suo rappresentante terreno), ma non un completo sconvolgimento.
[9] Si veda V. Mele, La reazione della terra alla caduta di Lucifero (Inf. XXXIV 121-126). Qualche appunto di carattere linguistico, in Leggere Dante, a cura di L. Ricci Battaglia, Ravenna, Longo, 2003, pp. 345-363. Fra i commenti, solo Bellomo, cit., pp. 551 s., tiene conto almeno in parte della spiegazione avanzata dalla Mele. Le sue ipotesi sono discusse in dettaglio da Gallarino, Metafisica…, cit., specie pp. 36-48, che però espone alcune considerazioni difficilmente accettabili: a parte il fatto che non si può definire la “natural burella” come “il condotto che conduce Virgilio e Dante dal centro della terra ai piedi del monte del purgatorio” (cfr. p. 46), non è lecito distorcere la sintassi riferendo “e venne a l’emisperio nostro” (v. 124) a Lucifero, perché è impossibile che qui sia sottinteso il soggetto di quattro versi prima, mentre nei successivi è costantemente ‘la terra’, che appunto si sposta in parte cambiando emisfero (cfr. pp. 48 s.: la proposta è peraltro avanzata con varie cautele). Semmai si potrebbe tentare di leggere “E’ venne…”, ma in questo caso si andrebbe incontro a una forte asimmetria: infatti l’azione dei due tipi di terra si dovrebbe concludere in entrambi i casi con un nuovo status (“e venne… / e sù ricorse”), mentre questo parallelismo si perderebbe se il verbo “venne” fosse da riferire a Lucifero (il quale, d’altronde, non si conficcò interamente nell’emisfero boreale).
[10] Che Dante potesse concepire un’iniziale emersione in entrambi gli emisferi non è affatto improbabile, soprattutto per i tanti luoghi (in Averroè, Alberto Magno ecc.) che sottolineavano le virtù originarie anche di quello boreale (cfr. Padoan, cit., pp. xxix s.), senza dimenticare la circolazione di teorie orientate in questo senso (cfr. n. 16$). E si considerino anche le numerose supposizioni di terre emerse presenti in entrambi gli emisferi, per esempio l’antictona o gli stessi antipodi (si veda la voce relativa nell’ED curata da G.Buti e R. Bertagno). Mele, art. cit., pp. 359 s., fa notare che vari commentatori antichi (fra cui Graziolo, l’Ottimo e soprattutto Benvenuto) sembrano intendere che lo spostamento riguardava la terra emersa nell’emisfero australe, che andò ad aggiungersi a quella boreale. Affronta alcuni di questi problemi Gallarino, Metafisica…, cit., specie pp. 48-68, riesaminando le principali posizioni espresse dagli interpreti, ma senza indagare in dettaglio le contraddizioni pure da lui notate.
[11] Per gli aspetti leggendari riguardanti la storia di Adamo, forse almeno in parte noti a Dante, è ancora utile, nonostante i suoi limiti più volte segnalati, A. Graf, Miti, leggende e superstizioni del medio evo (1892-93), nuova ed. a c. di C. Allasia e W. Meliga, Milano, B. Mondadori, 2002, specie pp. 48 ss. In ogni caso, le conseguenze della caduta di Lucifero in rapporto alla creazione dell’uomo non sono state considerate irrilevanti da Nardi, Lecturae…, pp. 232 ss., la cui ricostruzione però proprio su questo punto non risulta del tutto condivisibile, dato che egli pensa a un Adamo creato prima della ribellione angelica, in contrasto con Conv. II v 12, dove si legge che la “decima parte” degli angeli si ribellò, “alla quale restaurare fue l’umana natura poi creata” (si veda il commento di Fioravanti, cit., p. 259, che sottolinea le implicazioni del poi). Resta di sicuro problematico intuire in che momento Dante immaginava fossero avvenute la creazione dell’uomo e la sua collocazione nel paradiso terrestre (peraltro “fatto per proprio dell’umana spece”, come recita Par. I 57), tuttavia sembrerebbe meno oneroso pensare la prima come successiva alla riconfigurazione dell’emisfero boreale, che anche per questo non dovrebbe avere solo il marchio luciferino ma dovrebbe essere stato abitabile già per un disegno divino.
[12] Su ciò si veda la nota precedente. Sulle problematiche relative alla configurazione dell’Inferno e del Purgatorio secondo il poema dantesco, cfr. C. Forti, Nascita dell’inferno o nascita del purgatorio. Nota sulla caduta del lucifero dantesco, in “Rivista di letteratura italiana”, IV, 1986, 2, pp. 241-260. Per alcune possibili precisazioni, cfr. Gallarino, Metafisica…, cit., pp. 69 ss. Quanto al “forse” del v. 124, la sfumatura introdotta sembrerebbe analoga a quella riscontrabile in Par. XXX 1: “Forse semilia miglia di lontano…”, che non mira a svalutare la credibilità dell’osservazione ma solo a sottolineare un margine di incertezza, dovuto ai limiti della conoscenza del narratore (come qui di Virgilio su aspetti esulanti dalla sua cultura).
[13] Da ultimo cfr. il commento di Rinaldi, cit., specie pp. 663-665, molto evasivo riguardo alle obiezioni più forti circa l’autenticità. Fra gli studi sulla Questio, oltre al contributo di Nardi, cit., risultano ancora utili, benché non privi di mende e di interpretazioni non condivisibili, G. Boffito, Intorno alla «Quaestio de aqua et terra» attribuita a Dante. Memorie I-II, Torino, Clausen, 1902-1903; Pecoraro, Le stelle di Dante, cit., specie pp. 106 ss. Fra i contributi più recenti, al di fuori dell’ambito italiano: Z. Barański, I segni della creazione: il mistero della “Questio de aqua et terra”, in Dante e i segni, Napoli, Liguori, 2000, pp. 199-219 ; Th.J. Cachey Jr., Cosmology, geography, and cartography, in Dante in context, a cura di Z. Barański e L. Pertile, Cambridge, Cambridge U.P., 2015, pp. 221-240. Di Ted J. Cachey, per gentilezza dell’autore, ho potuto leggere anche Le verità (e l’imbarazzo) della Questio, in Dante poeta cristiano e la cultura religiosa medievale. In ricordo di Anna Maria Chiavacci Leonardi, a cura di G. Ledda, Ravenna, Longo, c.s.
[14] Molti interpreti hanno notato la stranezza di quest’informazione ritardata, che si eviterebbe se si pensasse a una semplice sostituzione operata dal primo editore, G.B. Moncetti (su cui cfr. infra a testo), legatissimo alla corte gonzaghesca di Mantova, governata nel 1508 da Francesco II e da Isabella d’Este, sorella del dedicatario della stampa cinquecentesca dell’operetta, il cardinale Ippolito. Se infatti ipotizzassimo che l’originale presentava “existente me Verone” al posto di “Mantue”, otterremmo un quadro ben più coerente: si capirebbe senza dubbi che la discussione fu posta a Verona e suscitò subito invidie e contrasti, e dopo questa fase fu determinata, sempre nella città scaligera, e quindi scritta di proprio pugno da Dante, evidentemente nei primi mesi del 1320. Rafforzerebbe questa chiusura ad anello la ripresa del “quod determinatum fuit a me”, che si legge al § 3 (ma, stando al testo attuale, non è chiaro dove ciò avvenne), nel § 87, dove troviamo il suo equivalente con variatio “Determinata est hec philosophia” (e già prima, XXIII 86: “Sic igitur determinatur determinatio”, che potrebbe anche essere considerata un’espressione conclusiva): se si ricostruisce questa corrispondenza si unificano senza ambiguità il luogo e il momento della determinatio stessa. Formulava l’ipotesi di una sostituzione Verone > Mantue già Biagi, ed. cit., pp. 79 s., scartandola con motivazioni molto deboli. In ogni caso, bisognerebbe indicare almeno un esempio di ‘informazione ritardata’ non, per esempio, in un testo di tipo novellistico, bensì in un resoconto di una disputa scritto agli inizi del XIV secolo.
[15] Per questi aspetti, si rinvia soprattutto ai lavori citati di Boffito, Nardi e all’edizione di G. Padoan, cit., specie pp. ix-xiv (ma in generale l’Introduzione riassume ancora correttamente i problemi da affrontare analizzando la Questio).
[16] Su ciò cfr. ed. Rinaldi, cit., pp. 656-660, ma soprattutto Nardi, Lecturae, cit., pp. 256-261; è vero comunque che l’autore della Questio accoglie suggestioni diverse, che non necessariamente devono essere ricondotte a un periodo anteriore al 1320. Sull’ambiente mantovano si sofferma Padoan, loc. cit., ma portando solo pochi e non perspicui riscontri. Sul vescovo veronese Teobaldo Fabri (o Fabris), si veda la voce del DBI, 43, 1993, pp. 764-766, preparata da Maria Rossi. Quanto alle teorie di Pelacani, si noti che esse comprendevano la possibilità dell’esistenza di terre emerse in ogni parte del globo: cfr. Nardi, cit., pp. 255-261, e Padoan, cit, pp. xx-xxi.
[17] Per una serie già sintomatica di riscontri, cfr. G. Indizio, Problemi di biografia dantesca, Ravenna, Longo, 2013, specie pp. 365 ss.
[18] Per le informazioni e la bibliografia, si rinvia alla recente ed. a cura di G. Albanese, cit.; ma cfr. anche A. Casadei, Dante oltre la “Commedia”, Bologna, il Mulino, 2013, pp. 59 ss.
[19] Cfr. Boffito, art. cit., specie pp. 270-272, che sottolinea in particolare le stranezze del primo e dell’ultimo paragrafo. Ma numerosi altri sono gli elementi inconsueti rispetto alle normali strutturazioni retoriche delle Quaestiones, a cominciare dall’improvvisa irruzione dell’autore ‘reale’, soprattutto dal § XXII 77. Si notino anche alcuni termini problematici, come il “dilatrata” con valore passivo (ma i pochi esempi di forme riferibili a di- o delatrare hanno valore attivo, almeno in base alla Library of Latin Texts, ed. 2015).
[20] Cfr. § 88 : « Et hoc factum est in anno a nativitate Domini nostri Iesu Christi millesimo trecentessimo vigesimo, in die solis, quem prefatus noster Salvator per gloriosam suam nativitatem, ac per admirabilem suam resurrectionem, nobis innuit venerandum; qui quidem dies fuit septimus a Ianuariis Idibus, et decimus tertius ante Kalendas Februarias ». Sulla stranezza di questo modo di datare l’opera, cfr. Rinaldi, cit., p. 751, ma anche Pastore Stocchi, cit., p. 275, che nota la mancanza di ogni riferimento all’indizione. Cfr. anche Boffito, art. cit., specie pp. 339-340.
[21] Come ormai è ben noto, le modifiche dei manoscritti, antichi o moderni, erano tipiche di tutte le revisioni precedenti all’invio in tipografia: e infatti già nel frontespizio della Questio si legge che “diligenter et accurate correcta fuit per reverendum magistrum Ioannem Benedictum Moncettum de Castillione Arretino”, affermazione ribadita poi in altri luoghi (cfr. ed. Rinaldi, cit., p. 673). Al di là della tipica retorica tipografica primocinquecentesca, come notano tutti i moderni editori, gli interventi redazionali sono stati consistenti, per poter proporre un manoscritto comprensibile ai tipografi: cfr. in particolare Rinaldi, cit., Nota al testo, specie pp. 671-674, anche per l’esistenza di varianti a stampa. Su Moncetti, cfr. A. Luzio-R. Renier, Il probabile falsificatore della “Quaestio de aqua et terra”, in ” Giorn. stor. d. lett. Ital.”, XX (1892), pp. 125-150; Biagi, ed. cit., pp. 18-25 e Appendice A, pp. 179-180 (passi da cui si evincono molti dei limiti culturali di questo intraprendente agostiniano); nonché la voce di G. Padoan in ED.
[22] Su ciò cfr. almeno Indizio, cit., pp. 366 s.
[23] Su questo è ancora d’obbligo un rinvio a Nardi (loc. cit., specie pp. 232-265) per le incongruenze riguardo alle teorizzazioni della Questio soprattutto in rapporto al racconto infernale della modifica della configurazione terrestre, che non lascia spazio a spiegazioni ‘scientifiche’ come quella del gibbus, peraltro mai menzionato nemmeno nel Convivio persino là dove sarebbe stato necessario segnalarne l’esistenza (p.e. in Conv. III v 7-21). Invece, il testo attribuisce alla terra emersa o quarta abitabile una forma a gibbo (“gibbositas”: e per ‘gibbo’, stando ai commenti, dobbiamo proprio intendere un’escrescenza anomala, dovuta a un’azione specifica di una parte del cielo delle stelle fisse (cfr. Questio XXI 69 ss.).
[24] A titolo di esempio: nel poema con ‘primo cielo’ s’intendeva, avvicinandosi al Paradiso, l’Empireo (cfr., esemplarmente, Purg. XXX 1), mentre “celum primum”, in Questio IV 9, potrebbe indicare quello delle stelle fisse o addirittura quello della luna (insufficienti le spiegazioni dei commenti citt., ad locum).
[25] Importanti osservazioni si leggono in C. Calenda, Una lettura di Paradiso XXIX: culmine e dissoluzione della quaestio nella poesia dottrinale della Commedia, in “Tenzone”, 4, 2003, pp. 11-30 (specie p. 24: nella sua trattazione “Dante non sta accumulando e giustapponendo auctoritates e criteri interpretativi, ma li sta annullando, vanificando, se ne sta liberando, ne sta facendo piazza pulita”), mostra come il Dante di questi canti supera i modelli filosofici precedenti sulla base delle sacre scritture: sarebbe il cammino opposto a quello della Questio.
[26] Le verifiche innanzitutto dovranno essere effettuate all’Archivio di Stato di Mantova, sia per reperire materiali sulle attività culturali che possano essere ascritte al periodo del 1319-20, sia per controllare in dettaglio i rapporti di Moncetti con la corte dei Gonzaga agli inizi del XVI secolo; poi a Padova per sondare quanto resta degli archivi dello Studio agostiniano (cfr. almeno F. Bottin, a cura di, Alberto da Padova e la cultura degli Agostiniani, Padova, Padova U.P., 2014, specie pp. 117-165). Necessaria anche un’indagine di textual bibliography per collazionare tutte le copie superstiti della stampa del 1508 e stabilire il suo esemplare ideale. In queste direzioni si sta muovendo un gruppo di lavoro formato da docenti e specializzandi dell’Università di Pisa e della Scuola Normale Superiore. Ringrazio intanto per i proficui scambi di pareri Gianfranco Fioravanti, Veronica Mele, Dario Pecoraro, Federico Rossi, Marco Signori. Un grazie anche a Sergio Cristaldi per la sua attenta lettura.