Nessun commento »

13 febbraio 2015

Di Alberto in: Discussioni

Giulio Milani su “La ferocia” di Nicola Lagioia


Volentieri ospitiamo questa recensione inedita di Giulio Milani, scrittore e editor di “Transeuropa”, sul romanzo di Nicola Lagioia “La ferocia” (Einaudi 2014).

 

Tra gli italiani, “La ferocia” di Nicola Lagioia è per me uno dei migliori libri letti nel 2014. Naturalmente si tratta di un’opinione parzialissima – potrebbe essermi sfuggito qualcosa nella sterminata erogazione di novità che inondano ogni anno le librerie –, ma il punto non è questo. Il punto è potersi confrontare con un testo che presenta – finalmente –, molti spunti di riflessione a partire dal vertice dalla produzione letteraria del paese.

Il romanzo di Lagioia si distingue dalla media in primo luogo per i riferimenti classici – Flaubert, Faulkner su tutti –, che l’autore è stato capace di attualizzare nel plot dannatamente contemporaneo del libro (che ricorda, nell’andirivieni di flashback concentrici che promanano anche da personaggi minori intorno al fuoco della vicenda, il montaggio di determinate serie americane – da “Lost” a “True Detective”).

L’altra caratteristica di rilievo è “la ferocia” con la quale l’autore descrive i suoi personaggi, rappresentandoli in forme caricaturali congelate da una maschera tragica. Abbiamo chiaramente a che fare con l’archetipo dell’autore moralista cattolico ottocentesco – qui il riferimento a Flaubert si fa preminente –, che mette ordine nella realtà dei rapporti umani secondo una fredda, lucida e disincantata sequenza da radiologo/etologo (le insistite metafore che nel libro rimandano al mondo degli insetti e degli animali rispondono all’applicazione di questa prospettiva). Lo stile, di conseguenza, ha subìto un lavoro di mola che lo rende tagliente e preciso. Controllatissimo. Anche per questo ringrazio l’autore, perché vibra una “sottomissione” totale dello scrittore all’appello dell’arte (impiego qui un concetto, legato alla parola “sottomissione”, che compare nel libro di Houellebecq “La carta e il territorio”, e che a mio avviso rappresenta anche una chiave di lettura soggiacente dell’opera successiva di quest’altro moralista flaubertiano).

Ritengo dunque di poter collocare Lagioia tra quegli autori – presenti, passati e futuri –, che fanno del romanzo una “scienza storica spettrale” (questo è un club di mia invenzione, che prende a prestito due nozioni, quella di Carlo Ginzburg relativa all’essenza della narrazione romanzesca contenuta in “Miti emblemi spie. Morfologia e storia” e quella di Zizek sul “fantasmatico/traumatico”). L’uso del condizionale composto e del futuro anteriore, in questo senso, non è semplicemente un atteggiamento letterario d’antan (che potrebbe far storcere il naso a qualche critico erede della lezione della neoavanguardia), ma costituisce lo strumento verbale indispensabile per creare un’ambivalenza tra ciò che è “davvero successo” e le ipotesi dell’autore-detective (si veda a pagina 25, dove compare il riferimento all’anticipazione figurale nella questione delle biografie già scritte). Il condizionale composto e il futuro anteriore, infatti, si coniugano e si detestano allo stesso modo, come due inquietanti gemelli. La proliferazione dei “doppi” – anche in fatto di costruzione dei personaggi, oltre che nell’uso dei tempi verbali –, risponde d’altra parte a un identico fenomeno di ambiguazione, che è poi l’inizio di ogni crisi nei rapporti umani. Il romanzo di Lagioia ospita la crisi di indifferenziazione, dall’inizio, perfino nella rappresentazione di una condizione interspecifica tutta uniforme, dove solo l’uomo – religiosamente, prima che antropologicamente –, infrange l’indifferenza atavica della natura (pagina 8). Come la infrange? L’uomo si eleva dalla biocenosi attraverso il sacrificio rituale, che è “un’uccisione consapevole” e l’avvio di un culto sanguinario. In un universo così concepito – non più naturale, ma ancora pagano –, non ci sono colpevoli e innocenti, ma una successione ininterrotta di vittime e di carnefici che si scambiano continuamente le parti.

Nel libro, troviamo che perfino Clara, la vittima sul cui tragico destino ci si interroga (persecutoriamente) come fosse la prima indiziata per la sua stessa morte, nell’enciclopedia di amori che inanella è il “doppio spaventoso” del padre, un costruttore specializzato nella devastazione del territorio, e come lui “si fotte” tutto e tutti – popolo e ottimati, vecchi e giovani –, ma nelle forme del calco negativo, nel ruolo dell’antagonista paterno, nei modi della “passiva aggressività” tipizzati nelle vesti di donna e di figlia. Da un certo momento in avanti – ovvero quando Clara prende la decisione di entrare nei panni della “figlia di suo padre” –, la accompagnerà in questa parabola di perdizione e di rivalsa la figura del marito, l’ingegnere Alberto, che è poi una riesumazione di Charles Bovary, ma questa volta tanto ambiguo e “doppio” da sembrare più complice del padre di Clara, ovvero del suo datore di lavoro, che vittima di un’infatuazione masochistico-sadica per la moglie depravata. Quest’ultima, si pone all’inizio e alla fine di una crisi – a un tempo economica, familiare, sociale e morale –, come la valvola di sfogo di una caldaia pronta a esplodere: è il meccanismo del capro espiatorio, che rende il soggetto del tutto funzionale al sistema e capace di farlo tornare in equilibrio. Quando il fratellastro Michele, vero capro espiatorio designato, se ne andrà da una casa che non lo aveva mai voluto, lei prenderà il suo posto nell’ingranaggio (ciò che la psicologia conosce come “sostituzione del sintomo”). Alla fine, il padre non potrà che apprezzare la figlia per il suo sacrificio, portandoselo all’incasso (“Vittorio brandiva la nera potenza del lutto”, pagina 129), mentre al lettore resterà il dubbio se l’incidente mortale in cui si è imbattuta Clara non sia stato, in fondo, la conseguenza di un comportamento suicida volto a salvare l’azienda familiare (che comunque verrà travolta dalla rovina coi buoni uffici del vindice Michele, come si confà alla dimensione di apologo morale del romanzo).

La ferocia di Annamaria, la madre, con una bella intuizione è descritta attraverso la storia delle sue gravidanze. L’attesa di Clara, in particolare, si trasforma in un bad trip a metà tra lo spaesamento della puerpera in “La moglie dell’astronauta” e l’evocazione del male assoluto di “Rosemary’s Baby”: la comparsa della vittima designata, del capro espiatorio da espellere, è avvertita da Annamaria come malvagia, esterna alla famiglia, parassitaria, fin dalla gestazione nel proprio ventre. All’altro capo di questo delirio a due c’è il marito, Vittorio, che ci mette del suo tradendola con una preda fissa – “spezzandole il cavo di sicurezza” (pagina 165 e 166) –, ovvero un’amante che a propria volta darà alla luce, morendo, il primo e autentico capro espiatorio designato, l’inane Michele.

Michele è il doppio “salvifico” di Clara, il “ladro Barabba” che sarebbe dovuto morire al suo posto, e che invece ne ricostruirà il calvario in favore del lettore: insieme, costituiscono una coppia di fratelli replicata, in negativo, dalla diade Gioia/Ruggero. Il transfert emerge a pagina 133. Anche Ruggero è feroce, ma la sua ferocia – al pari della bulimia sessuale di Clara e di quella affaristica del padre Vittorio –, si dirige contro la malattia, contro il cancro, e al solo scopo di fare carriera. È un uomo “capace di sorridere a una paziente malata di cancro all’utero pregustando il momento in cui distruggerà quel cancro”. La ferocia di Gioia, la bambina sciocca – calco negativo di Michele, il bambino inane –, raggiunge invece il suo culmine quando la ragazza prenderà, alla morte di Clara, il suo posto da “più bella del reame” intestandosi un culto alla memoria grazie alla clonazione dell’account Twitter della sorella maggiore. Le persone, a questi personaggi, non interessano: ci sono solo le cose, o meglio, il valore che queste cose rappresentano agli occhi del contesto sociale di appartenenza. Le decisioni d’indirizzo, il flusso serializzato dell’esistenza, la costruzione del “carattere” come strategia per la condotta sociale, non sono altro che un campo da gioco dove reperire i mezzi più adatti per raggiungere questi valori e guadagnare, col possesso degli “status symbol”, ciò che manca all’originalità delle rispettive esistenze. Ascesa e caduta non sono più momenti successivi lungo la linea del tempo, ma compresenti nel fondamento stesso di questa ontologia dipendente dalle oscillazioni dell’altrui giudizio.

“La ferocia” è in conclusione un romanzo complesso, stratificato, che impiega profondità e movimento per ritrarre una nuova borghesia di parvenu allo sbando, divorata dall’ambizione dell’”avere per essere” fino a rovinarsi. Questa schiatta rappresenta una parte del paese forse non (ancora) maggioritaria, ma abbastanza agguerrita e contagiosa da costituire un serio problema politico e ambientale (in senso ampio). Il rischio, dal punto di vista letterario, è che di fronte a temi del genere si muovano i fili d’acciaio della scrittura solo per riempire il vuoto e il già detto di certe vicende. La mancanza di naturalezza e i limiti dello sforzo aspettano dietro l’angolo.

Vorrei terminare, pertanto, con un auspicio e un augurio: quanto sarebbe bello vedere un autore così dotato e impegnato confrontarsi, in futuro, con determinate vicende sociali e politiche della sua regione appena sfiorate nel libro, ossia coi traumi condivisi, collettivi, di un sistema che non paga le persone per lavorare, ma per morire: le incredibili e per lo più ignote vicende degli operai e degli abitanti del petrolchimico di Brindisi come dell’Ilva di Taranto non attendono altro che una voce d’eccezione che le racconti, sottraendole al dato di cronaca per farne letteratura e coscienza.

 

Giulio Milani

Rispondi