Di Alberto in: Proposte

Romanzi di Finisterre 3


Capitolo su La pioggia nera da Alberto Casadei, Romanzi di Finisterre (Roma, Carocci, 2000). Per le indicazioni bibliografiche, si veda la categoria Discussioni

 

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Diari dell’inferno terreno:

La pioggia nera di Ibuse Masuji

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1. Proponiamo innanzitutto un passo apparentemente secondario all’interno di Kuroi Ame (1965; trad. it. La pioggia nera, 1993, p. 193):

 

I ponti di legno di Hiroshima, con l’esplosione, erano quasi tutti bruciati. Il modo in cui erano bruciati era sorprendente. Innanzi tutto si erano consumate le tavole di legno del ponte, poi i pilastri di sostegno; la parte che fuoriusciva dall’acqua ardeva a poco a poco, man mano che la marea si abbassava. Lo strano era che il giorno dopo bruciava ancora consumandosi lentamente, benché l’alta marea avrebbe dovuto aver spento il fuoco.

 

Una pura descrizione, si dirà: ma in essa si manifesta una caratteristica essenziale dell’opera di Ibuse, ossia la percezione esatta, ancorché personale, di un evento abnorme, incommensurabile, quale l’esplosione della bomba atomica su Hiroshima il 6 agosto 1945. Proprio attraverso le ripetute descrizioni si vuole dar pienamente conto dell’accaduto[1].

Dopo la notizia che i ponti sono bruciati in maniera sorprendente, si espone con una freddezza quasi scientifica il come: un fuoco lento, che continua però inesorabile anche quando la marea avrebbe dovuto spegnerlo. L’osservatore-cronista non dà spiegazioni, perché non può darle nel momento in cui osserva, cioè a poche ore dallo scoppio: ma la pura constatazione dell’eccezionalità basta, al lettore che deve immaginare, per intuire quanto anche questo fenomeno, tutto sommato di scarsa entità, dovesse risultare mostruoso e incomprensibile.

Come mostruosa e incomprensibile era la distruzione di un’intera città per opera di un’arma sconosciuta, subito denominata fra la gente pikadon (= “lampo e fragore”), quasi si trattasse di una forza della natura anziché della tecnologia. E nella sua ricostruzione Ibuse non sovrappone alcuna nozione posteriore, conserva tutto lo stupore delle osservazioni immediate, fatte da chi in un istante si è trovato in mezzo all’apocalisse terrena.

È molto importante, per questo, che il romanzo PN sia in buona parte costituito dalla citazione-rielaborazione di diari autentici, tenuti da persone che si trovavano a Hiroshima il 6 agosto, e che perciò hanno visto il disastro, hanno subìto gli effetti della bomba, e poi hanno raccontato quell’evento[2]. Dunque, non un solo diario di un solo sopravvissuto: la bomba, nella devastazione generale, ha prodotto effetti diversi, cosicché, si potrebbe dire, diversi devono essere i punti di vista attraverso i quali quell’esplosione viene raccontata. Ma questa spiegazione circa la pluralità dei punti di vista (tipica non del diario, bensì del romanzo) è solo la prima da avanzare: come vedremo meglio, la ripetizione del racconto fa anche sì che l’evento appaia “riaccaduto all’in-finito”, cioè che la sua consistenza stia non solo nell’attimo in cui è accaduto, ma anche nella sua incancellabilità.

I diari più importanti che vengono proposti sono quello della giovane Yasuko (cfr. pp. 29-51), che copre il periodo 5-9 agosto, ma riguarda specialmente il giorno dell’esplosione; e soprattutto quello di suo zio Shizuma Shigematsu (cfr. pp. 52-364), il più ampio e dettagliato, che va dal 6 al 15 agosto, giorno della resa, e che doveva poi essere consegnato, come documento, alla biblioteca della scuola elementare di Kobatake, villaggio situato 160 km a est di Hiroshima, dove Shigematsu abitava dopo la fine della guerra. Viene inoltre riportato il manoscritto di Iwatake Hiroshi (si tratta ancora di un diario, completato dalla moglie), medico militare di riserva, scampato miracolosamente alla morte dopo una fase di degenza lunga e terribile (cfr. pp. 289-327): in esso si descrivono gli effetti delle radiazioni sul corpo dei malati. Infine, si leggono anche alcuni resoconti, quello del Regime alimentare a Hiroshima in tempo di guerra (pp. 84-93), scritto dalla moglie di Shigematsu, Shigeko; e quello della malattia di Yasuko, tenuto sempre da Shigeko, chiamato diario, ma in realtà molto più schematico degli altri (pp. 276-85). Occorre aggiungere che i diari di Shizuma Shigematsu e di Iwatake Hiroshi sono in parte ricavati dai resoconti di due hibakusha (= “vittime della bomba atomica”)[3].

Nella trama del romanzo, i primi due diari citati dovrebbero essere utilizzati per rassicurare un giovane che vuole chiedere la mano di Yasuko, ma teme che sia stata colpita dalle radiazioni, come purtroppo sarà accertato. La vicenda principale di PN è dunque questa: Yasuko sarebbe prossima a sposarsi, ma non vi riesce perché scopre gli effetti della malattia atomica, a distanza di vari anni dallo scoppio. Per lo zio Shizuma Shigematsu, già colpito a suo tempo, e per la moglie Shigeko è allora necessario, nel tentativo di scoprire un modo per salvare la nipote, ripercorrere tutte le tappe della malattia, anche attraverso il diario di altri sopravvissuti, come Iwatake.

Si riscontrano quindi due tempi nella narrazione: il presente postbellico, del quale si descrive la vita di Shigematsu e dei suoi familiari; e il passato, ossia il momento dell’esplosione atomica, ricostruito sulla base dei diari. Ma implicitamente si ricava poi un terzo tempo, quello della natura: ad esso corrisponde la ciclicità biologica e rituale, che, come già ha osservato uno dei maggiori studiosi occidentali di Ibuse, John Treat (1988), è fondamentale in PN. Dopo l’apocalisse infatti i superstiti vorrebbero ristabilire la continuità della vita, e Shigematsu s’impegna in attività come l’allevamento delle carpe, palesemente legate alla riproduzione naturale[4].

Su questo torneremo più avanti. Intanto, ricaviamo da un’intervista concessa da Ibuse all’“Asahi Shimbun” altri dati sulla composizione del romanzo: «Since I had no firsthand knowledge of what happened, I was left with no choice but to gather as much material as I could [...]. I went to Hiroshima to hear the stories of more than fifty survivors» (citata in Treat, 1988, pp. 207-8). Le parole dei superstiti e i loro diari furono utilizzati per (ri)creare la percezione concreta della totale impotenza dell’uomo davanti alla bomba. Il risultato di queste ricerche e di questa rielaborazione letteraria fu, per Ibuse, soprattutto una convinzione etica: «There was no justice, no humanity, no anything in what happened» (ivi, p. 208).

 

2.1. Prima di affrontare adeguatamente l’importante risvolto etico (cfr. par. 4), occorre procedere all’analisi di alcuni nuclei narrativi e tematici. Essi dovrebbero infatti permettere, al di là delle differenze linguistiche e culturali, un confronto con la tradizione del romanzo occidentale, in quanto ben esemplificativi dell’evento che ha segnato la fine della sgm e l’inizio del terrore di una catastrofe atomica mondiale. Va sottolineato che l’andamento diaristico sembra far mantenere al testo un’oggettività documentaristica, che però viene superata in forza dello straniamento generato dalla ripetizione delle immagini. La struttura romanzesca permette poi di reintrodurre le testimonianze in un quadro vitale, cosicché, attraverso i personaggi, il lettore rivive l’evento come se stesse riaccadendo.

 

a) Sgancio della bomba atomica

 

Colpisce innanzitutto la ripetizione potenzialmente infinita dell’evento, ottenuta attraverso le sue continue rievocazioni. La prima si trova pressoché all’inizio del primo capitolo: «La mattina di quel sei di agosto, gli scolari del Corpo ausiliari della Seconda scuola media di Hiroshima in riga al posto di blocco ovest dello ShinÜhashi o su un qualche altro ponte nel centro della città, stavano ascoltando le istruzioni del maestro, quando la bomba cadde. In quell’attimo furono investiti dal fuoco» (PN, p. 22).

Si legge poco oltre nel diario di Yasuko, che in quel momento si trovava abbastanza lontano da Hiroshima: «Arrivati a Fume, un lampo e un rumore assordante. Un fumo nero come da un’eruzione sulla città di Hiroshima [...]. Una tragedia che non ha precedenti. Ma non se ne capisce bene la portata» (p. 31); e ancora: «In quel momento, fuori, un bagliore spaventoso bianco-verdastro. Sembrò spostarsi nel cielo da est a ovest, cioè dalla città di Hiroshima verso le alture dietro Fume. Come una meteora grande centinaia di volte il sole. Una frazione di secondo e risuonò un’assordante detonazione [...]. In direzione di Hiroshima del fumo saliva alto nel cielo» (p. 35). Va notato che Yasuko sottovaluta gli effetti della pioggia nera («Più volte andai a lavarmi le mani alla fontanella ma le macchie della pioggia nera non andavano via. Niente male come tintura!», p. 51); per il lettore, la giovane assume ben presto le caratteristiche della vittima innocente.

In seguito, le descrizioni dello scoppio si fanno sempre più precise, anche per la progressiva accumulazione di dati. Comincia ad esempio a diventare ricorrente nei resoconti l’alternanza luce/buio, come se si parlasse di uno sconvolgimento naturale: «In quel momento [...] si vide una palla di luce fortissima, accecante. Nello stesso momento tutto divenne nero e non vidi più nulla» (p. 53). Questa è la prima descrizione dell’evento che si riscontra nel diario di Shigematsu, che poi ne riporterà altre, sue o di persone incontrate a poche ore dal lancio: ad esempio (p. 73):

 

La nuvola-fungo aveva una forma più simile a una medusa che a un fungo. Ma agitava le estremità come se avesse ancora più forza di una medusa e la sua testa cambiava colore, rosso, violetto, blu, verde e si ingrossava verso sud-est. Come un’acqua che ribolliva, eruttava dal suo interno, impetuosa come se da un momento all’altro dovesse piombare su di noi. Davvero giusto definirla mukurikokuri [= “entità minacciosa, diavolo”]. Non era forse un messaggero venuto proprio dall’inferno? Ma chi, in questo universo, ha il diritto di dar vita a una tale mostruosità?

 

Ecco invece una sintesi delle varie opinioni che si erano diffuse a proposito della bomba (p. 154):

Tirando le somme delle opinioni dei passeggeri di quella carrozza [di un treno], c’era chi pensava che insieme al lampo di luce ci fosse stato un enorme scoppio e chi invece pensava che fosse stato un formidabile boato [...]. La nube che torreggiava nel cielo per l’esplosione mi era sembrata un terribile mostro a forma di medusa. Da vicino o da lontano, la sagoma doveva essere diversa. Tra i passeggeri, uno diceva che era a forma di fungo.

 

Anche Shigeko fornisce un suo breve resoconto, che ancora una volta mette a confronto la vita quotidiana con l’evento abnorme: «aveva sentito un’esplosione, si era affacciata alla finestra della cucina a guardare il cielo. In quell’istante c’era stato un intensissimo lampo» (p. 178). In generale, tutti questi resoconti contribuiscono a far immaginare la terribile violenza dello scoppio, proprio perché partono dalla quotidianità del vivere: sembra così che sia reso commensurabile ciò che non lo è.

La descrizione degli eventi più completa si legge nel diario di Iwatake (pp. 295-6):

 

Si sentì il rombo che ci era familiare di un B29. Arrivava da sud ed era proprio sopra di noi: alzai gli occhi al cielo senza rendermene conto, e mi accorsi che al di là del tetto della caserma era caduta lentamente una cosa, simile a un pallone frenato. L’istante successivo una luce bianca come un lampo o come il flash che una grande quantità di magnesio bruciata tutta insieme potrebbe emanare. Sentii in tutto il corpo una fortissima vampata di calore. In quello stesso momento, un pauroso tremore della terra [...]. Giacevo in un buio pesto, imprigionato sotto dei legni [...]. Tutto era crollato: “raso al suolo” è la parola più adatta a descrivere la scena. Non c’era traccia umana, solo silenzio. Tutt’in-torno era buio come se fosse sceso il crepuscolo.

 

Insomma, in PN il lancio e l’esplosione della bomba vengono continuamente ripetuti (quasi un funesto ritornello: «e fu in quell’attimo che il B29 sganciò la bomba», p. 295), e ciò fa comprendere la sua non-cancellabilità, che sembra confermata dalla biologia: nell’apparente tranquillità, la malattia di Yasuko riporta alla mente di Shigematsu l’im-magine della nuvola atomica: «La sua [di Yasuko] vista si è a poco a poco indebolita e sente un continuo ronzio nelle orecchie. Eravamo in salotto quando me lo ha confidato e in quell’istante ho visto la stanza sparire e una grande nuvola a forma di medusa alzarsi nel cielo azzurro. L’ho vista stagliarsi netta» (p. 268). Nella biologia dei singoli, si ripete quell’evento.

 

b) Viaggi tra le rovine

 

Lo scoppio ha di per sé segnato una svolta nella vita di tutti i personaggi di PN. Ma Shigematsu è pure stato costretto ad attraversare a più riprese la città devastata, dapprima per porsi in salvo, assieme a Shigeko e Yasuko, poi per varie necessità. Il suo diario presenta quindi scene di un inferno più volte visitato: e non sono proposte solo visioni statiche, ma anche avvenimenti.

Cominciamo dalla descrizione del panorama di Hiroshima dopo il lancio (gli esempi sono ricavati soprattutto dal primo viaggio di Shigematsu, pp. 105-6):

 

Dal centro città una spaventosa colonna di fiamme trafiggeva il cielo. Un’enorme vampata di fuoco. Risucchiava in un unico falò il fumo e le fiamme che salivano dalle varie zone e mescolandoli trasformava il fumo in una cappa di nubi. Intorno alla colonna di fiamme che perforava questa nube orizzontale, piccole masse di fuoco piovevano qua e là come apparizioni di spettri. Capii che erano i sostegni, le travi, i davanzali delle case, sospinti in alto dalla colonna di fuoco che ricadevano bruciati.

 

E questa è un’altra descrizione “certificata” da un diario (cfr. pp. 123-7, specie 126-7):

 

«Non muoverti [Yasuko]. Se ti muovi finisci nel fuoco. Un passo in più ed è l’inferno» [...]. «Ohi, siamo salvi. Vivremo, vivremo» gridai [...]. Era una pianura di rovine carbonizzate, a perdita d’occhio [...]. Cadaveri con la faccia a terra e poi ancora cadaveri. Inseguiti dal calore e avvolti dal fumo, dovevano essere crollati per il dolore e, in quell’attimo, aver perso conoscenza ed essere soffocati. Dall’esperienza della nostra fuga doveva essere stato proprio così. Anche noi avevamo vagato a un passo dalla morte.

 

Durante questo viaggio, in cui il vero coincide coll’orribile, si trovano molteplici segni della distruzione della natura: «Giungemmo all’in-gresso del campo ovest di manovra. L’erba all’argine sulla riva occidentale era bruciata e non restava che la terra nuda e piatta. Anche gli alberi parevano essersi carbonizzati lì in piedi e sui rami neanche più una foglia [...]. Il campo ovest di manovra era una vasta distesa di sabbia» (p. 131); nonché dell’annientamento della vita umana: «Innumerevoli cadaveri giacevano fra i cespugli, a destra sotto la diga. Altri galleggiavano, uno dietro l’altro, nell’acqua del fiume [...]. Cosa potevamo fare? Più che domandarcelo, non potevamo far altro» (pp. 134-5)[5].

Lo stravolgimento della natura può essere di tipo diverso: essa, anziché finire distrutta, diviene mostruosa: «Questa bomba aveva dato vigore alla vegetazione e agli insetti ma aveva frenato la forza vitale dell’uomo. Mosche e piante imperversavano come non mai. Ieri, sulle rovine del ristorante di udon, il banano nel giardino retrostante aveva un nuovo germoglio lungo all’incirca quarantacinque centimetri [...]. Oggi [...] era già di sessanta centimetri» (p. 233). Colpisce soprattutto la permanenza di effetti straordinari dopo la fine dell’evento.

La potenza della bomba si rivela pure attraverso piccoli fatti: su di un pezzo di legno rimane inciso, quando «quella palla di fuoco» squarcia il cielo, il disegno di un vetro (pp. 37-8); una lenza diventa nera «per il calore sprigionato dal lampo o dall’esplosione» (p. 46); ecc. Oppure attraverso fatti talmente impensabili da sembrare scene di un film: «davanti ai suoi [di un soldato] occhi, passò la scena del castello di Hiroshima nell’istante in cui schizzava in aria. Il torrione, così com’era, tutto intero, era volato via a sud-est» (p. 190).

Non sono solo la vista o l’udito ad essere colpiti in questa esplorazione della catastrofe: anche gli odori contribuiscono a completare il quadro delle sensazioni provate: «In quel momento fui assalito da un odore fetido, soffocante [...]. Attraversate le rovine di Teramachi, si era un po’ affievolito. Ma solo per un momento perché, man mano che i cadaveri e gli scheletri lungo la strada aumentavano, di nuovo mi assaliva un fetore terribile. Era un inferno di odori senza un attimo di tregua» (p. 197; cfr. anche p. 258, sull’odore di chi ha subìto gli effetti delle radiazioni).

Le descrizioni di Hiroshima dopo lo scoppio assumono progressivamente i tratti di una rappresentazione infernale (naturalmente, di un inferno buddhista). Il cammino tra le rovine, la visione della morte (o meglio: delle morti, in molteplici e impensabili forme), gli odori, gli avvenimenti relativi alla natura deviata dal suo corso, snaturata nel senso più forte del termine: tutto questo fa parte di una modalità letteraria che, in modo occidentale, potremmo definire appunto “rappresen-tazione dell’inferno” (e si veda infra il punto dedicato al rapporto con la morte e il par. 4). Tuttavia non si tratta, come dovrebbe essere ormai evidente, di un’istanza metafisica, bensì di una condizione totalmente fisica, quella che ha portato all’annientamento ormai avvenuto: «Il sei agosto alle otto e quindici davvero il cielo si è aperto, la terra è bruciata, gli uomini sono morti» (p. 198). In PN è rappresentata insomma la distruzione “infernale” della natura (seguita dal tentativo di ripristinare un corso normale, ossia una forma di sopravvivenza), piuttosto che una crudeltà completa, come quella dei lager (su cui si veda il capitolo dedicato a VVA).

 

c) Perdita dell’identità

 

Alla visione dello scenario post-atomico si somma quella dei singoli, ridotti alla condizione di quasi-morti. È impressionante per Shigematsu (e per i suoi lettori) la scoperta della progressiva disgregazione del proprio corpo (pp. 62-3):

 

Portai le mani al viso e sentii su quella sinistra qualcosa di appiccicoso. Guardai il palmo delle mani e quello sinistro aveva su tutta la superficie come delle strisce accartocciate di carta bluastra [...]. Sulla guancia sinistra avvertivo una sensazione spiacevole come se tante minuscole particelle vi si fossero attaccate. Quando provai a tirare la pelle della guancia spalancando la bocca e poi richiudendola, avvertii ancor più quel qualcosa di appiccicoso [...]. Sul palmo, rimasero di nuovo attaccati pezzetti di quello sporco. Provai a sfregarli con la sinistra e avvertii qualcosa di simile ai rimasugli di una gomma da cancellare, ma più viscido. Un brivido mi attraversò il corpo. Fu come se tutta la confusione attorno a me svanisse. Non svenni ma in quell’istante ebbi uno shock impossibile a descriversi.

 

E si confronti quest’altra autodescrizione (pp. 176-7):

 

Strappai il cerotto che teneva la benda e piano piano la staccai. Le ciglia bruciate erano come grumi neri, proprio simili a quelli che si formano bruciando fili di lana scura. Tutta la guancia sinistra era di un viola nerastro e la pelle bruciata rimasta attaccata si era raggrinzita e formava degli strati sovrapposti. Accanto alla narice la ferita era infetta e del nuovo pus sembrava uscisse da sotto la crosta indurita. Guardai allo specchio solo la metà sinistra della mia faccia e mi chiesi se era il mio volto. Il mio cuore cominciò a palpitare: diventavo sempre più irriconoscibile.

 

La perdita dell’identità è quindi la conseguenza più importante per gli individui colpiti dalla bomba[6].

 

d) Condizione dei superstiti

 

Si possono poi rilevare numerose conseguenze che riguardano l’insieme dei superstiti. Esse sono evidenziate da alcune scene eccezionali, quadri fissati nel loro doloroso “essere per sempre”. Si veda ad e-sempio l’elenco delle pp. 76-9 (in particolare pp. 77-8): «Un uomo teneva un pendolo tra le mani, come per fare un’offerta, e questo ad ogni passo emetteva un suono ritmico [...]. Un uomo muoveva freneticamente le gambe come se corresse, ma, stretto tra la folla, avanzava al passo».

La bomba ha generato, nella quotidianità, forme di pazzia, di paura folle, implicita in molti degli atteggiamenti e dei gesti degli scampati: «la giovane si mise a lanciargli [contro un vecchio dalle fattezze di occidentale] delle tegole [...]. Mi sembrava strano che riuscisse a muovere liberamente la parte superiore del corpo, benché quella inferiore fosse rimasta imprigionata da una trave o qualcos’altro e trattenuta dal-l’ammasso di tegole. Le tegole che gettava volavano assai lontano. Le rompeva in piccoli pezzi e poi le scagliava» (p. 55).

A proposito della malattia e della degradazione fisica degli hibakusha (di cui si è già detto sopra), si registrano anche reazioni collettive: «Una strana cosa mi colpì: quando un malato cominciava a lamentarsi, molti altri, tutti insieme, gli facevano eco. Delle voci terrificanti come se le rane di una risaia tutte, nello stesso momento, cominciassero a gracidare» (p. 314). Non ci sono più gesti giustificati, tutti sembrano privi di senso.

In ogni caso, rimane ineliminabile in ciascun superstite il ricordo dell’evento che ha sconvolto la sua vita: «Solo il tintinnio [nelle orecchie] continua giorno e notte, come il rintocco della campana di un tempio lontano, per me come un segnale d’allarme che lancia il suo appello contro le atomiche» (p. 327). La condizione umana che PN ci manifesta non è quella del sopravvissuto che ha vinto la sua battaglia, ma quella del superstite o dello scampato, che ha subìto la violenza dell’apocalisse tecnologica, e nonostante questo deve continuare a vivere.

 

e) Rapporto con la morte

 

Un altro tema ricorrente è quello del rapporto con la morte. Si può prendere in esame il rituale dei funerali, anch’esso descritto con una ripetitività ossessionante. Ecco un esempio (pp. 170-1):

 

Le persone che eseguivano il funerale trasportarono il corpo su una stuoia, lo caricarono su un carretto e partirono. Io li seguii. / Le rive sabbiose del greto del fiume avevano l’aspetto di un crematorio. A monte, a valle, dappertutto si alzava del fumo. Qua una fiammata, là solo una densa caligine [...]. C’erano delle buche in cui si vedevano solo teste e gambe scheletrite. In altre le fiamme rosso vivo ondeggiavano ancora. Ricordandomi che c’era un altro morto, tornai indietro lungo l’argine recitando Il sermone sulla morte. Lo sapevo ormai a memoria.

 

Più avanti vengono riportate alcune parti del Sermone (pp. 335-6):

 

Sarò io il primo o sarà un altro? Sarà oggi o domani? Prima o poi tutti moriamo, come le gocce di rugiada mattutina. Così le guance rosse del mattino, saranno alla sera un bianco teschio. Una volta soffiato il vento dell’eterno cambiamento i nostri occhi saranno chiusi e il nostro respiro fermo per sempre.

 

Il rapporto con la divinità, in PN, è costituito soprattutto dalla recita di questo Sermone sulla morte, di ispirazione buddhista, e non da una qualche forma di invocazione positiva. Il mondo è stato davvero abbandonato dagli dei, e solo nella certezza della morte è lecito credere: ogni accezione salvifica della religione è, in apparenza, negata dalla totalità e non-giustificabilità della distruzione. Per chi ha vissuto l’apocalisse atomica non si è realizzata alcuna apparizione del divino, ma solo una serie di effetti infernali sui corpi, sulle cose, sulla natura. Questa situazione è interpretabile in maniera diversa, a seconda che la si guardi in modo shintoista o buddhista, oppure in modo cristiano; è però chiaro che la realizzazione di questa apocalisse tecnologica non comporta alcuna forma di giudizio, ossia di giustizia finale da parte di un dio, ma unicamente lo stravolgimento fisico, a cui si oppone solo la possibilità, sempre revocabile, della ripresa dei cicli biologici.

 

2.2. Nel finale di PN sono sintetizzati i temi qui presi in esame, e l’elaborazione letteraria risulta sempre fondamentale per l’efficacia della loro rappresentazione.

L’esplosione viene rievocata una volta di più, ma in questo caso in termini più scientifici, con la rivelazione del nome proprio dell’arma, e con una profezia sulle conseguenze del suo lancio (p. 341):

 

Bomba atomica, pare sia il nome esatto – ha detto il direttore con il viso pallido per l’ebbrezza. – Una bomba che sembra avere una fortissima energia radioattiva. Ho visto anch’io sulle rovine le tegole bruciate con delle bolle in superficie, diventate di colore rosso come delle lingue di fuoco. Un’invenzione spaventosa. Dicono che da ora e per settantacinque anni a Hiroshima e a Nagasaki non crescerà più neanche l’erba.

 

Si accenna poi agli effetti mostruosi, che si sommano a quelli distruttivi, e seguono vari discorsi popolari sulla fine della guerra e sugli eventi catastrofici che un arcobaleno bianco preannuncia. Poi giunge il momento della resa, comunicata in un discorso alla radio dell’Imperatore (pp. 358-9). Ma Shigematsu preferisce non ascoltarlo e si mette a passeggiare lungo un canale, per scorgere i segnali di una ripresa della vita naturale (p. 360):

 

Che bel corso d’acqua scorre qui! Me ne accorgevo per la prima volta. Dentro l’acqua c’erano file di piccole anguille tutte intente a risalire controcorrente. Numerosissimi banchi di piccole anguille: uno spettacolo stupendo. Ancora più piccole di quelle che vengono chiamate mesokko, erano lunghe appena dieci, dodici centimetri, di quelle che al mio paese si chiamano piriko o tatanbari. / «Risalite, risalite, l’acqua è fresca», le ho incoraggiate e quella lunga, interminabile fila risaliva.

 

Immediatamente dopo si parla ancora della resa del Giappone (pp. 361-3), e vengono riportate frasi di grande impatto emotivo ricavate dal discorso dell’Imperatore: «Se noi continueremo a combattere, finiremo per annientare non solo la nostra razza, ma tutta la civiltà umana» (p. 363). Tuttavia la sconfitta non è troppo importante, per Shigematsu; ben più importante è che la natura riprenda il suo ritmo[7]. Torna perciò a rivedere il corso d’acqua, ma non scorge alcuna forma di vita: «Uscito dalla mensa sono andato nel cortile sul retro per vedere ancora una volta le piccole anguille che risalivano il corso d’acqua. Questa volta mi sono avvicinato al canale facendo ben attenzione a non fare rumore, ma nell’acqua che scorreva trasparente non se ne vedeva più neanche una» (p. 363).

Questa è l’ultima azione di Shigematsu riportata nel suo diario. Nella pagina successiva il testo ci riporta al periodo postbellico: il tempo segnato dalla bomba atomica e il tempo della storia semplice di Shigematsu e di Yasuko si fondono (p. 364):

 

«Se ora dalle colline laggiù spunta un arcobaleno, avverrà il miracolo. Se appare un arcobaleno, non bianco ma di cinque colori, Yasuko guarirà»: così Shigematsu volle leggere nel futuro, gli occhi rivolti alle colline, ben sapendo che non si sarebbe avverato.

 

Le conseguenze della bomba rimangono: la natura ha ripreso il suo corso, ma non potrà compiere il miracolo di far scomparire le conseguenze dell’evento che l’ha sconvolta.

In conclusione, il realismo autentico di Ibuse passa attraverso una descrizione depurata di ogni emotività eccessiva e retorica, come se, dopo lo scoppio dell’atomica, ogni fenomeno biologico e psicologico fosse stato ridotto alla sua essenza, ribadita da qualsiasi soggetto osservante. Grazie al loro inserimento nella struttura romanzesca, le pagine dei diari non creano soltanto una percezione soggettiva, ma anche una sovrapposizione di immagini fissate per sempre. E la narrazione che comprende queste immagini infernali (però pure, all’opposto, quelle della rinascita del ciclo naturale) non risulta enfatica, perché appunto dimostra la loro piena rispondenza alla realtà del dopo-bomba.

 

3.1. Per valutare meglio l’elaborazione letteraria compiuta da Ibuse sul materiale raccolto, e quindi i caratteri che differenziano PN dai singoli diari di Hiroshima, è opportuno proporre qualche confronto con altre testimonianze. Uno adeguato si può instaurare con il Diario di Hiroshima di Michihiko Hachiya, medico e direttore ospedaliero (menzionato anche in PN, p. 245). Il racconto di Hachiya riguarda la situazione in cui, dopo il lancio dell’atomica, si è venuto a trovare l’Ospedale delle Comunicazioni della città, dal 6 agosto al 30 settembre. Elementi non essenziali si mescolano continuamente ad altri assai più importanti, come in un’effettiva registrazione in diretta. Non si nota una gradazione degli avvenimenti, che compaiono in semplice sequenza, senza essere elaborati (ed è così più evidente che la somma dei diari di PN non si può ridurre ad una giustapposizione).

Leggiamo un passo tra i più impressionanti (p. 28):

 

«Ma i loro volti non esistevano più. Occhi, naso, bocca, tutto era stato mangiato dal fuoco, e pareva che le orecchie si fossero liquefatte; non si capiva più qual era il volto e quale la nuca». Sembrava che il signor Katsutani trovasse un certo sollievo, sfogandosi a descriverci le scene terrificanti che aveva visto, e nessuno di noi pensava a interromperlo: eravamo tutti come affascinati dal racconto di quegli orrori.

 

La descrizione è simile ad alcune di PN, ma non è inserita in un tessuto che la renda particolare. In questo passo, e in molti equivalenti, la registrazione degli eventi non ha e non può avere alcun altro scopo che quello di un puro diario, la completezza della cronaca giornaliera; viceversa, in PN la somma delle descrizioni genera di nuovo l’orrore, è finalizzata a reinterpretare l’orrore della bomba.

Nel Diario di Hachiya si colgono poi molti atteggiamenti che tendono a eliminare l’angoscia della distruzione atomica. L’indifferenza alla morte diviene comune: «Eh, sì, – dice un personaggio – ho paura che siamo diventati piuttosto insensibili» (p. 81). Significativo è poi che il giorno della sconfitta risulti quasi più doloroso di quello dell’esplo-sione: «Una sola parola – resa – a Hiroshima aveva prodotto più agitazione che non il bombardamento. E più ci pensavo e più mi sentivo triste e sconsolato» (p. 104; ben diverso in questo caso l’atteggiamento di Shigematsu, al termine di PN: cfr. par. 2.2).

Il punto più interessante per il nostro confronto è però costituito dal modo di descrivere la nube atomica (pp. 194 e 198):

 

Nel momento preciso in cui si formava la nuvola dai mille colori mutevoli, veniva cancellata dalla terra la città di Hiroshima; il risultato di anni e anni di lavoro s’era dissolto nel cielo stupendo con la gente che l’abitava [...] // vidi un’enorme nube che si levava minacciosa su Hiroshima; le facevano corona una serie di graziose nuvolette color oro. Uno spettacolo stupendo, come non ne avevo mai visti in vita mia!

 

Queste e poche altre brevi descrizioni formano una mera aggiunta alla narrazione principale: in quanto medico, Hachiya nel suo resoconto dà la precedenza ai problemi relativi alle cure dei feriti e alle sue personali diagnosi; non esiste insomma l’ossessiva ripetizione dell’evento, che è evidente in PN. Ora, se è certo che l’esperienza tragica della bomba atomica deve essere descritta dai singoli che l’hanno provata, è altrettanto certo che soltanto nella dimensione comune trova la sua piena esplicazione: il racconto cioè non può riguardare esclusivamente quello che un solo individuo ha provato, ma deve giungere ad esprimere quello che, contemporaneamente, hanno provato tutti.

Tale è l’effetto conclusivo di PN: la somma dei diari produce l’impressione di una permanenza stabile e sofferta dell’avvenimento nella memoria collettiva. Come nei racconti delle guerre epiche, questo evento straordinario non sarà più “ciò che è accaduto una volta”, bensì “ciò che è accaduto per sempre”. E, come nei racconti epici, la concentrazione sugli elementi essenziali è indispensabile per ottenere l’assolutizzazione dell’evento: il confronto con il diario di Hachiya serve soprattutto a mostrare il montaggio operato da Ibuse, affinché, nell’organizzazione del suo romanzo, i fatti quotidiani dessero risalto – anziché toglierlo – a quello eccezionale (si veda, per questo aspetto, il capitolo su PJ)[8].

 

3.2. Per un altro confronto, ancora relativo al modo di rappresentare l’esplosione, si può usare il racconto di Leonard Cheshire, che partecipò alla missione inviata a bombardare Nagasaki. Questa è la sua visione dello scoppio, da uno degli aerei della missione:

 

Prima c’era stato il lampo [...], quindi era seguito un fuoco rosso-rovente che si raffreddava in una nube scura. Non nera, forse grigia. Aveva un diametro ch’io valutai sul mezzo miglio. L’aspetto più straordinario era che ribolliva come un calderone. Al suo interno il calore doveva essere immenso. So che nel momento della detonazione la temperatura era vicina a quella del sole [...]. Qui [...] c’era una forma scultorea, che mi dava un’impressione ben più grande di potenza [...]. Più osservavo lo spettacolo e più mi dicevo: «Questa è un’arma che non si può combattere» [...]. Ceneri, polvere e scorie venivano risucchiati verso l’alto, e il grande cono era completamente nero. «Dentro quella nube scura – pensai – ci sono degli esseri umani!» [...]. L’atomica simboleggiava tutto l’orrore della seconda guerra mondiale e nello stesso tempo mi dava una visione fugace di ciò che sarebbe stato un conflitto globale futuro, se mai fosse scoppiato[9].

 

Qui prevale il senso di compassione per le vittime, e non manca la consapevolezza a posteriori dell’enormità dell’evento. Tuttavia un pur condivisibile atteggiamento di riflessione, e poi di rifiuto, circa l’uso degli armamenti atomici non basta a far comprendere ciò che è avvenuto. Vedere dall’alto la potenza della bomba non significa nulla, rispetto al provarla, al subire i suoi effetti. Per immaginare l’apocalisse terrena occorre una descrizione-ricostruzione narrativa, in cui le tante testimonianze si fondono in una coralità: ed è questa appunto che permette al lettore di sentirsi compartecipe della sorte delle vittime.

 

3.3. La descrizione-ricostruzione presentata in PN non è nemmeno comparabile con una raccolta di testimonianze di tipo giornalistico-documentario, come quella, peraltro assai ricca, di Robert Jungk. Anche in questo caso le analogie non possono nascondere le differenze: i resoconti dei superstiti, preparati a distanza di qualche anno, mescolano avvenimenti quotidiani e tragici in un modo che li fa risultare appiattiti, lontani nel tempo, quasi filtrati. Si veda ad esempio:

 

[Kazuo M.] si era ritrovato infine nel quartiere ai piedi della collina Hijiyama, reggendo sulle braccia il cadavere nudo di una compagna di scuola, Sumiko, che in qualche punto di quella strada attraverso l’inferno gli si era aggrappata, gravemente ferita. In qualche modo aveva trovato la forza di cremarla e seppellirla, in qualche modo seguitò a vivere nei giorni successivi. Anche i suoi genitori e la sorellina Hideko erano miracolosamente scampati all’immane sciagura. In quei giorni si mangiava riso freddo, impastato in polpette, che veniva distribuito da mense volanti, si dormiva in un ex rifugio antiaereo, una specie di galleria senza luce; come in sogno facevano determinate cose, percorrevano smarriti un numero infinito di strade. I capelli cadevano; il corpo tremava continuamente per le sofferenze e per lo choc. Cercavano di non pensare alle ferite che avevano nel profondo, ai tremendi eventi che le avevano provocate. Dormire, dormire, dormire[10].

 

Hiroshima, continua il testimone, non era solo un deserto di rovine vuoto di esseri umani: molti non subirono una fine istantanea, ma dovettero sopravvivere per giorni in quell’ambiente (ibid.). Ma della loro sopravvivenza veniamo qui a conoscere solo i caratteri esteriori.

Si legga ora un passo relativo allo stravolgimento del ciclo naturale:

 

Oltre queste ombre di esseri viventi e di oggetti, che erano stati anch’essi carbonizzati nel fuoco del lampo atomico, il professore [il geologo Shogo Nagaoka, fra i primi a scavare nella zona di Hiroshima dopo l’esplosione] raccoglieva ingenti quantità di materiali che nel gigantesco forno dell’esplosione non erano stati distrutti ma soltanto trasformati: addirittura le pietre erano state riportate temporaneamente allo stato fluido, cioè alle prime ere geologiche[11].

 

I referenti sono ancora gli stessi di PN, ma l’efficacia ricostruttiva del romanzo e il suo effetto di ossessione non si ritrovano nella cronaca, sia pure accurata, delle pagine di Jungk. La differenza fondamentale sta nel fatto che Ibuse non vuole tanto far sapere “come sono andate le cose”, ma piuttosto far capire che cosa è veramente accaduto, ai singoli e alla collettività e alla natura stessa.

 

4.1. Vediamo adesso di esaminare, in rapporto a PN, alcune interpretazioni sociologiche e/o etico-filosofiche di Hiroshima.

Una prima indicazione, molto generale, potrebbe venire da quelle opere che confrontano l’esplosione atomica con le rappresentazioni del giudizio universale e della fine del mondo. Più che al sempre importante saggio The Sense of an Ending di Kermode (1967), è qui opportuno far riferimento ad un etnologo come Ernesto De Martino, che tende a considerare la paura di Hiroshima come una manifestazione di questa perenne ansia apocalittica:

 

il semplice fatto che la catastrofe atomica abbia potuto acquistare ai nostri giorni un rilievo concreto, alimentando il correlativo terrore, mostra come il rischio della fine, molto prima di diventare possibilità di autodistruzione materiale mediante l’impiego della potenza tecnica dell’uomo, affonda le sue radici negli animi, accennando ad una catastrofe molto più segreta, profonda e invisibile di quella di cui il fungo di Hiroshima ha offerto in scala ridottissima l’immagine reale[12].

 

Questa prospettiva può essere giusta, specialmente nell’ambito di uno studio etnologico o sociologico. Ma, dalla parte di un romanziere come Ibuse, il dolore estremo generato dall’esplosione della bomba, ossia da un istante (uno solo) di apocalisse, è ben più significativo di tutte le ipotesi sulla fine dell’intero mondo.

Piuttosto, la filosofia contingente di Anders (1960), depurata delle parti ormai storicamente superate, sembra comparabile con la nostra interpretazione, specie laddove si rileva che il nulla conseguente alla distruzione atomica è non un’astrazione, ma «la cosa stessa, il Nulla in sé, il Nulla per adulti: l’annientamento, la distruzione fisica, massiccia, totale, che non lascia nulla che non sia distrutto» (p. 83). E dunque la pars rappresentata da Hiroshima non sta pro toto: deve essere, ed è in effetti, il tutto, anche se è pur sempre pars della catastrofe possibile (cfr. pp. 100-1).

Amare ma lucide considerazioni portano Anders ad affermare che «le vittime non contano più, perché non possono più raccontare» (p. 96), e che la guerra è ormai diventata un «telecidio [...]. Il nemico non è distrutto durante la lotta e dopo la sconfitta, ma prima ancora di combattere e di essere sconfitto; la possibilità stessa di combattere è annullata. In altri termini: la guerra, come distruzione o annientamento, non è più un’azione strategica, ma un processo tecnico, per cui si annulla come guerra» (p. 115).

Un romanzo come PN può allora svolgere una funzione non solo memoriale-interpretativa, ma anche etica. Poiché attualmente il pericolo atomico è stato metabolizzato nell’immaginario collettivo (ed è da tempo oggetto di film commerciali), se si vuole che Hiroshima mantenga un valore esemplare occorre considerare la bomba atomica come un evento incancellabile, «perché anche quelli che ancora non lo sanno capiscano infine che il nome di Hiroshima non indica una città, ma la condizione del loro mondo»[13]. In questo senso, PN non è moralistico nel significato più banale del termine, bensì etico: la prima motivazione del romanzo di Ibuse consiste nel suo impulso etico (ma di un’“etica possibile”, come torneremo a chiarire), cioè nella volontà di decifrare la condizione del vivere umano, dopo la sgm e il lancio della bomba, quando, come direbbe Jaspers, il «dato di fatto» è che la distruzione del mondo risulta possibile[14].

In sintesi, il pensiero di Anders che meglio potrebbe riassumere la condizione umana narrata in PN è quello di una sua Tesi sull’età atomica, intitolata Hiroshima come stato del mondo: «Il 6 agosto 1945, giorno di Hiroshima, è cominciata una nuova era: l’era in cui possiamo trasformare in qualunque momento ogni luogo, anzi la terra intera, in un’altra Hiroshima. Da quel giorno siamo onnipotenti modo negativo; ma potendo essere distrutti ad ogni momento, ciò significa anche che da quel giorno siamo totalmente impotenti»[15]. La totale impotenza è in effetti la condizione a cui la bomba ha ridotto gli uomini, primi fra tutti i superstiti protagonisti di PN[16].

 

4.2. Ma oltre che di queste osservazioni di carattere etico-filosofico, in parte legate ad un preciso momento storico (quello della Guerra fredda), occorre dar conto anche delle moltissime interpretazioni parziali, proposte nei tanti testi sull’atomica scritti fino ai nostri giorni (e che fra l’altro permetterebbero di tracciare l’evoluzione in senso ecologico della paura riguardante la fine del mondo). Un’indagine di tipo giornalistico ma non superficiale è stata realizzata da Ian Buruma (1994). L’autore sottolinea che sempre più di frequente viene proposto un confronto tra Auschwitz e Hiroshima, e precisa che il paragone «si basa su tale concetto, e precisamente sull’idea che Hiroshima, al pari dell’O-locausto, non fosse parte integrante della guerra, non ne fosse neanche mimamente collegata, ma fosse bensì “qualcosa che succede alla fine del mondo…”, secondo le parole [dell’hibakusha]  Üta YÜko»[17]. In particolare, Hiroshima e Auschwitz vengono spesso accostate dagli scrittori giapponesi: e d’altronde, ormai è comunemente sentito che, con gli eventi connessi a questi due luoghi simbolici, ci troviamo “di fronte all’estremo” proprio della sgm (su questo, si vedano le Conclusioni).

Fra i punti sviluppati da Buruma uno importante per la nostra analisi è quello della strumentalizzazione politica del lancio della bomba. I giapponesi, in maggioranza, non hanno riconosciuto sino in fondo le loro colpe nella sgm, e hanno invece enfatizzato l’aspetto dell’autosa-crificio: Hiroshima è dunque un luogo di martirio, da cui proviene una richiesta di pace universale, ma anche una di ammissione di colpa da parte della razza bianca. Da questo punto di vista si coglie un altro carattere specifico del romanzo di Ibuse: mentre il dibattito sulla bomba atomica risulta polarizzato politicamente, PN può essere considerato, anche se con vari distinguo, un romanzo “etico”, perché l’autore, che pure non nasconde, ad esempio, il suo forte antimilitarismo, mira in primo luogo alla resa testuale dell’orrore che la bomba ha provocato, e solo in subordine a quella degli avvenimenti politico-militari correlati[18].

 

Questo romanzo non appare affatto fuori tempo: anzi, rispetto ai molti che trattano dell’atomica (o, in generale, della sgm dal punto di vista giapponese)[19], PN appare quello che meglio riesce a ricondurre l’orrore dell’apocalisse terrena ad una dimensione umana insieme razionale e psicologica (e non puramente emotiva, come avviene davanti ai musei dell’atomica o ai filmati d’epoca). Questa potenzialità romanzesca, che rende piene le verità parziali dei diari, viene utilizzata pienamente nell’opera di Ibuse, non rivoluzionaria nelle forme ma estremistica nei contenuti, tale da riuscire a rappresentare, senza aloni di commiserazione, l’evento conclusivo della sgm.

 

Può a questo punto essere significativo un breve confronto con l’inizio del film di Resnais Hiroshima mon amour: scorrono immagini della zona bombardata, montate senza commento, e l’effetto è immediato, ma si ferma alla soglia dell’emotività. Ciò costituisce un limite forte dei documenti visivi di eventi abnormi, anche se la loro facilità ed esattezza servono a cogliere almeno l’aspetto esterno del dolore, a non lasciarlo inespresso; con il sommarsi delle immagini, però, le vittime si confondono e tutti i dolori diventano uguali. In un romanzo come PN si ha invece la rappresentazione testuale della sofferenza: le vittime, qui, possono parlare.

 

5. Colpisce, di PN, la capacità di descrivere le manifestazioni della distruzione atomica, sia che essa riguardi gli uomini, sia le cose. Non si riscontra alcun tentativo di ottenere da parte del lettore reazioni puramente emotive; è invece la somma dei fatti a generare consapevolezza. Il romanzo, in gran parte costituito di diari, impone di credere anche ad eventi inconcepibili: la scena dell’uomo che tenta di correre, pur essendo imprigionato tra la folla (cfr. PN, p. 78), viene ad indicare l’abnor-mità di quanto è accaduto, ed è fissata per sempre.

È essenziale che la struttura romanzesca sia qui intrecciata con quella del diario (come si è detto, una delle forme letterarie più ricche di tradizione nella letteratura giapponese), in modo da coniugare, diremmo in termini occidentali, il massimo di certum con il verum che può essere ricavato. La pluralità dei punti di vista non sfalda l’evento, ma anzi lo rende incancellabile: il lettore non può non credere a ciò che viene testimoniato da tutti i superstiti, cioè non può più non-sapere. Al protagonista Shizuma Shigematsu (ma, è lecito dire, a Ibuse) interessa prima di tutto la “certificazione” dell’evento (PN, pp. 79-80):

 

«le cose vere che ho scritto sono solo una millesima parte di ciò che ho visto. È ben difficile scrivere!». «Non sarà perché quello che scrivi deve seguire qualche tua teoria, qualche tuo “-ismo”?». «No, non ha niente a che vedere con gli “-ismi”. Dal punto di vista descrittivo la mia è cruda rappresentazione realistica. Quel che è vero è vero».

 

Insomma, per parlare dell’atomica senza limitarsi al compianto, occorreva che la narrazione rispettasse due criteri fondamentali: quello del non-inventare, caratteristica che si deve attribuire ai diari riportati (che rispettano ciascuna percezione soggettiva dell’evento), e, insieme, quel-lo del ricreare, con un romanzo, la verità completa di ciò che è avvenuto. Dati questi fondamenti, la ripetizione potenzialmente infinita dell’evento è in PN il modo non di vanificarlo, di renderlo subordinato all’esperienza soggettiva, ma di inscriverlo nella vita di tutti, ineliminabile.

Al fondo, si scopre l’impotenza degli uomini di fronte alla nuova arma-simbolo della sgm (e potremmo commentare, con Hegel, che le armi sono l’essenza stessa dei combattimenti). La bomba ha annientato, in senso letterale e assoluto, mentre ciascuno stava svolgendo un’at-tività del tutto normale: è la sproporzione tra ciò che era normale e ciò che accadde in quel momento che colpisce ogni lettore. D’altro canto la bomba ha causato lo sconvolgimento di tutti gli equilibri biologici. La morte degli uomini è quindi un aspetto della distruzione della natura o del suo essere stravolta sino alla mostruosità. In tutto questo si riconoscono i tratti di una rappresentazione infernale, ormai non solo letteraria. Ma allo sconvolgimento si contrappone una volontà di durare propria della natura, che tenta di riprendere la sua continuità.

In PN si mostra come è avvenuta la distruzione, ma nell’apparente neutralità del come si riconosce anche una richiesta di senso. La grandezza del romanzo sta appunto nel raccontare l’abnormità come se non fosse tale, e così facendo la rende impressionante. La distruzione di Hiroshima non è una, ma la distruzione, quella che pone un discrimine nella storia umana, perché prelude alla possibile morte di tutti: contro questa prospettiva Ibuse offre un testo che può spingere a resistere, a tentare di ricostituire un ordine nella natura sconvolta. Nello scoppio della bomba atomica si riconosce un estremo dell’orrore raggiunto dalla sgm, attraverso un testo il cui realismo, per un lettore occidentale, sta nel fornire un valore universale alle esperienze soggettive espresse nei diari, rinnovandone la tradizione: si riesce così a narrare l’apocalisse terrena e tecnologica, il «surrogato scientifico del giudizio universale» (Heiner Müller), che, come capiamo con PN, è di per sé un giudizio universale senza salvati.

 

Note

 



[1]. Va subito specificato che, quando parliamo di “descrizione” (o di “accer-tamento”), non intendiamo riferirci ad una pretesa oggettività assoluta, estranea alla cultura nipponica. Vogliamo invece rilevare che l’osservatore elimina, nel riferire gli avvenimenti, ogni tratto scopertamente psicologico-empatetico, limitandosi, come in questo caso, ad un giudizio in rapporto alla consuetudine («era sorprendente»). Tutte le percezioni e le sensazioni testimoniate dai sopravvissuti formano la base per poter ricostruire un evento che, al di là della sua varia fenomenologia, risulterà comunque incontrovertibile e incancellabile. Delle differenze stilistiche relative alle diverse testimonianze e al racconto principale ci ha informato l’ottima traduttrice italiana, Luisa Bienati. Per un’analisi dettagliata dello stile di PN, cfr. Liman (1992), specie pp. 457-507, che mette in evidenza le modalità adottate da Ibuse per adeguarsi al tema; si veda, per un preciso quadro d’insieme, Bienati (1993), anche per altra bibliografia.

[2]. Cfr. Treat (1988): «He lives in a culture where diary writing enjoys an immensely popular tradition» (p. 212; a questo lavoro ci rifaremo per molte delle notizie sulla produzione di Ibuse). Il “diario” (nikki-bungaku) consente soprattutto di esprimere la percezione soggettiva in rapporto ad ogni evento esterno: di fatto, il nikki classico può corrispondere, nella letteratura occidentale, tanto al diario quanto, e forse più, all’auto-biografia o alla confessione, ma in ogni caso la corrispondenza non è completa (cfr. Kristeva, 1984, specie pp. 158-62). Bisogna poi tener conto del fatto che le distinzioni narrative occidentali (diciamo, per semplificare, tra prima e terza persona) sono in effetti superate in Giappone per il continuo slittamento del punto di vista. La sola narrazione in terza persona è sentita come inautentica, mentre quella in prima, specie nel diario, appare garantire una verità. In PN i due punti di vista si alternano, ma il risultato non è quello dell’ambiguità interpretativa (come in altri romanzieri moderni, e come nel celebre RashÜmon di Kurosawa).

[3]. Cfr. Treat (1988), pp. 206-8, in cui si parla dell’opera di documentazione di Ibuse, con l’aiuto del vero Shigematsu, che però non aveva potuto fornire i diari della nipote, colpita con ritardo dalla malattia atomica; e p. 237, in cui si segnala che la storia di Iwatake è citata «nearly verbatim» dal suo diario. Per la fortuna di PN, e soprattutto per il dibattito sulla sua adeguatezza per la rappresentazione del disastro di Hiroshima, cfr. poi Treat (1995), pp. 261 ss.

[4]. Più in generale, sull’aspetto del rito in PN cfr. Treat (1988), pp. 216 ss.: «Ritual in Black Rain is tied not only to the private regeneration of one hibakusha family, but to the general movement of the human, and natural, world» (p. 223).

[5]. Ecco un’immagine identica, colta da Iwatake, che viene a “certificare” la prima: «Una piana di cenere, senza caserme, né altro» (p. 311). Quanto al senso di totale impotenza, esso è esplicito anche in Jungk (1959), p. 89: «Shikata ganai [non possiamo farci nulla]» dicono in tanti dopo ciò che è avvenuto. Altre immagini di distruzione particolarmente toccanti si trovano alle pp. 136-7 e 230-1: «Ma la mia pietà non poteva superare l’orrore», commenta Shigematsu (p. 137).

[6]. Cfr. anche p. 255, da cui si ricava che gli stessi parenti spesso non riconoscevano le vittime. Si veda poi il passo di pp. 319 ss., e in particolare le pp. 319-23, riguardante il disfacimento corporeo di Iwatake: la distruzione atomica della biologia è seguita in tutto il suo processo, in questo caso analogo a quello di mummificazione.

[7]. Sull’importanza simbolica dell’ordine naturale cfr. Treat (1995), p. 296: «The symbolic order of nature is proposed, in fact, as its actual order; otherwise, the damage done by the atomic bomb could not both be expressed by its distorsion of the natural world and repudiated by its occasional repair of that distorsion» (cfr. anche pp. 288 ss. sulla rilevanza del rituale in Ibuse, sempre in rapporto ai cicli naturali).

[8]. Un altro confronto potrebbe essere effettuato con Hiroshima di John Hersey, uscito in prima edizione nel 1946, e in un’edizione ampliata nel 1985. In questo resoconto giornalistico, dapprima pubblicato sul “New Yorker” del 31 agosto 1946, vengono narrate le vicende di sei persone coinvolte nello scoppio. La descrizione scabra degli avvenimenti produce un effetto iniziale simile a quello di PN, ma la forma-diario di quest’ultimo genera poi un processo di ricostruzione individuale delle vicende, e non documentaristico-esteriore.

[9].  Cfr. Cheshire (1991), pp. 68-70. Si aggiungono poi considerazioni militari, che saranno sviluppate da Cheshire assieme ad altre, politiche ed umanitarie.

[10]. Cfr. Jungk (1959), pp. 25-6, c. n.; si noti la genericità del dettato.

[11]. Jungk (1959), p. 31; cfr. pp. 32-3.

[12]. De Martino (1977), p. 470; cfr. anche p. 469.

[13]. Anders (1960), p. 101.

[14]. Cfr. Jaspers (1958). Ma non sono accettabili (e ormai nemmeno proponibili) le sue considerazioni sulla possibilità di preferire la distruzione al totalitarismo. Sulla funzione etica di PN, cfr. Treat (1995), p. 269: «If Black Rain tells “us” (non-victims) what “we” are like as human beings, then it is because here is a novel that tells of the similarities between ourselves and the victims rather than the differences». Cfr. anche Treat (1988), per un confronto con le altre opere di Ibuse.

[15]. Anders (1960), p. 201.

[16]. Si noti per inciso che, secondo Anders, Hiroshima rappresenta l’effettiva realizzazione degli orrori dei surrealisti: la mano rimasta attaccata alla bottiglia di birra, e ora esposta in un museo, ma anche la distruzione dei corpi ridotti a pura ombra («ultima immagine dell’ultimo uomo») costituiscono la prova che il mondo è davvero annientabile (cfr. p. 134). Su questo aspetto si tornerà a proposito dei testi di Ballard (si veda il cap. 8. Altre considerazioni).

[17]. Cfr. Buruma (1994), pp. 108 ss.

[18]. È vero che si colgono vari riferimenti antimilitaristi in PN: ma essi costituiscono un aspetto dello sfondo, non una dominante del testo, che aspira ad una universalità. Cfr. Treat (1995), p. 297: «There is a kind of universalization of Hiroshima at work here that, insofar as that is also its moment of naturalization, is ideological» (e cfr. pp. 274 ss., in particolare p. 277: PN fa di Hiroshima non soltanto «an “event” in history but a statement, a position, on “Being” – on what can and can not be»). Si veda anche Treat (1988), pp. 200-1: «basic theme of Black Rain; namely, the social and ethical repercussions of atrocity [...]. Its [di Hiroshima] victims were killed anonymously, indiscriminately, and without the sanction of a ceremony. Most important for Ibuse, they died without understanding»; e p. 210: PN si fonda sulla riflessione storica, e in specie sulla «connection between history, violence, and writing».

[19]. Per vari confronti con la letteratura della bomba atomica (genbaku bungaku), specie con le opere della scrittrice hibakusha Üta YÜko e con i saggi e i romanzi di Üe KenzaburÜ, si vedano Orsi (1995) e Treat (1995), specie pp. 125 ss. Il campo d’indagine sarebbe assai ampio e i confronti interessanti (ad esempio, sono numerosi gli autori che adottano paragoni infernali per descrivere Hiroshima dopo lo scoppio), ma la ricostruzione narrativa di Ibuse viene considerata la più rappresentativa.