Di Alberto in: Discussioni

Motivi per rileggere Beppe Fenoglio


Questo testo è ricavato da una relazione letta nell’ambito del convegno “La forza dell’attesa. Beppe Fenoglio 1963-2013”, tenutosi ad Alba presso la Fondazione Ferrero nei giorni del 15 e 16 novembre 2013. Gli Atti sono in corso di stampa.

 

Premessa

La parabola di Beppe Fenoglio come scrittore è caratterizzata da una serie di rapidi e impressionanti cambiamenti di rotta, ossia di generi e di stile, ma con alcuni nuclei tematici che rimangono fissi in modo addirittura ossessivo. Il primo motivo dei mutamenti (“D’improvviso ho mutato idea e linea”: lettera a Livio Garzanti dell’8 marzo 1960) è la volontà di cercare una sempre più precisa realizzazione testuale di quei nuclei che sono, in primis, esperienziali ed esistenziali. Nella nostra letteratura del secondo Novecento, pochi scrittori hanno tentato di raggiungere i loro obiettivi senza esplicitare una poetica generale, e invece procedendo empiricamente per continue approssimazioni e riconfigurazioni: questo ha fatto sì che la tensione narrativa di Fenoglio, sempre rinnovata e a tratti straordinaria (benché, proprio per questa natura espansiva, divaricata negli esiti), venisse subordinata a quella a più basso voltaggio di autori che hanno però saputo collocarsi più opportunamente nel campo di forze letterario italiano, tra la fine della stagione neorealista e l’inizio di una nuova fase sperimentale. Ora che non sembra più necessario proporre una poetica autonoma per essere interpretati pure (o a volte esclusivamente) in base a quella, possiamo delineare senza pregiudizi la precisa vocazione fenogliana alla scrittura letteraria, per far emergere i fondamenti che l’hanno generata e sostenuta nella rappresentazione dei quid decisivi, in primo luogo quello della morte percepita come imminente: e l’aggettivo va inteso nella sua valenza etimologica (‘che minaccia sovrastando’), dato che la morte, in Fenoglio, non è una nozione astratta ma la reificazione della minaccia di una fine corporea che sconvolge ogni difesa etica e razionale.

Si propone qui un’analisi dei motivi fondamentali dell’opera fenogliana sino al Partigiano Johnny, anche allo scopo di favorire una sua rilettura soprattutto nelle scuole superiori. Quest’analisi rientra in una complessiva del percorso di Fenoglio come scrittore, le cui premesse si possono trovare in A. Casadei, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Roma, Carocci, 2000, ripreso e ampliato in Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 141-210. Per i riferimenti bibliografici, si veda la Nota conclusiva.

 

1. In un passo dei capitoli espunti di Primavera di bellezza, Fenoglio cita Thomas Carlyle: “the true university of our days is a collection of books” (PdB I red., in Opere, I.3, p. 1272: il testo originale in On Heroes and Hero-Worship porta “these” invece di “our”). Non sappiamo quanto conoscesse degli Eroi, sebbene sia probabile, data la sua passione per i classici inglesi, che abbia letto assai più che questa sola frase aforistica della sezione L’eroe come letterato (The Hero as Man of Letters). Di sicuro poteva condividere un assunto fondamentale dell’opera, cioè la convinzione che i grandi libri, scritti da uomini dalla fede “più profonda”, sono in grado di plasmare la realtà, di rivelarla pienamente (la letteratura è “una continua rivelazione”): di conseguenza, la piena comprensione delle proprie vicende, l’Erlebnis come ripensamento della propria esistenza, può realizzarsi solo nella scrittura letteraria. Il Fenoglio-partigiano si è reso conto ben presto dei limiti dei grandi miti eroici, e a lungo ha raccontato dell’umanità dei combattenti nei suoi aspetti nobili e in quelli più bassi. Ma questo non gli è bastato: al culmine di una crisi profonda (quella del 1954, esplicitata in molte delle brevi note del Diario), ha deciso di dire altro della sua guerra e di quella dell’Italia intera, facendo emergere la condizione epico-tragica anche di chi, come Johnny, non riesce a essere eroe, ma sa che era comunque giusto combattere contro nemici, purtroppo anche compatrioti, che avevano calpestato ogni forma di dignità e di rispetto. Per superare la superficie delle debolezze umane, Fenoglio deve scrivere per rivelare sempre di più, ossia per includere nella sua scrittura una consapevolezza che gli è venuta proprio dal ‘ripensarsi’: per esempio, solo attraverso una narrazione complessa, come quella del Partigiano Johnny, si può far comprendere che il vero eroismo nelle guerre moderne è il resistere, benché si sia compreso, sin dal ripensamento del primo scontro a fuoco (la “battaglia ripensata” di PJ, cap. 9, p. 516), che la morte si è ormai imposta come parte intrinseca alla propria biologia.

Con un mutamento ulteriore intorno al 1959-60, anche l’amore assoluto e romantico, come tale trattato nelle prime prove teatrali (La voce nella tempesta, condensato di stereotipi e insieme espressione di un’urgenza forte tanto quanto quella che, forse nello stesso periodo, portava alla stesura degli eroicomici Appunti partigiani), diventa il motore perverso che spinge all’azione in guerra ma in fondo all’autodistruzione, come dimostra la vicenda del Milton di Una questione privata: l’ossessione dell’amore irraggiungibile e quella di una morte sempre presente si uniscono nel corpo e nella mente del personaggio che, quasi con un ossimoro, viene a identificare la donna idealizzata e il nemico che sta per uccidere: “Fulvia, a momenti mi ammazzi” (QP, cap. 13, p. 1141). Due archetipi della letteratura occidentale, l’amore e la guerra, si fondono in una nuova sintesi all’insegna della morte, questa volta prima di tutto biologica (e non fantasmatica e religiosa, secondo la ben nota ricostruzione di Giorgio Agamben in Stanze). Fenoglio riconduce la sua percezione del male a una fisicità mai trasposta mediante una qualche forma di sublimazione: le sue descrizioni degli stati fisici, spesso unite a quelle del paesaggio terrestre in cui il corpo dei suoi protagonisti agiscono, non mirano alla simbolicità bensì all’iperbole, che mantiene intatta la carica oggettiva e soggettiva della percezione del male nell’evento accaduto, e la espande senza limiti a tutto ciò che lo circonda. Per usare un paragone pittorico, l’azione del Fenoglio scrittore si colloca, nei suoi esiti più alti, tra L’urlo di Munch e il dolore delle cose manifestato per esempio dalle opere di Burri e ora di Anselm Kiefer.

Fenoglio è uno scrittore autenticamente realista, e semmai allegorico: il suo ‘grande stile’ o la sua ‘lingua allo stato fluido’, o la sua ‘pura energia’, di cui hanno parlato ottimamente nei loro studi Gian Luigi Beccaria, Dante Isella e Pier Vincenzo Mengaldo, non sono solo l’esito di un lavorio linguistico, ormai schedato in tutti i suoi aspetti essenziali (aggiungiamo ai precedenti almeno i lavori di Maria Antonietta Grignani e Elisabetta Soletti), benché l’aspetto della sua intrinseca metaforicità possa essere ulteriormente indagato in un’ottica cognitivista; sono invece la manifestazione esteriore di una ricerca che parte da una necessità profonda, quella di giustificare il proprio esistere per motivi comparabili con quelli che hanno portato Primo Levi a una diversa eppure altrettanto tenace vocazione alla scrittura. Probabilmente proprio negli abbozzi elaborati sempre più freneticamente a pochi mesi dalla morte Fenoglio ha espresso in modo più netto la “primaria ragione” (cfr. Lettere, p. 111), ignota a tutti, che giustificava la sua volontà di essere scrittore ovvero, badando all’etimologia, poeta – che, per lui, come quella di ‘partigiano’, è una “parola assoluta” (PJ, p. 447). Ma per arrivare a questo punto troppo rapidamente conclusivo, occorre ripercorrere le tappe essenziali della parabola di un autore che ha perseguito l’eroismo prima di tutto nella letteratura.

 

2. Grosso modo dal 1946, ha inizio la fase dei tentativi di scrittura nei quali Fenoglio mette a frutto le sue esperienze dirette come partigiano e le sue competenze di giovane e onnivoro lettore, nonché spettatore di film soprattutto americani, come La voce nella tempesta (1939, distribuita in Italia nel 1941 e poi, a quanto si può ricavare dagli archivi disponibili, dalla fine del 1945): un film presentato come la “più grande storia d’amore di tutti i tempi”, con cui Hollywood entrava in competizione con un classico quale Wuthering Heights, già caro al liceale Beppe immerso nei suoi amori sfortunati. Ma è il partigiano Beppe che, probabilmente, prende per primo la parola e lo fa in quegli Appunti partigiani che, dopo la rapida fortuna al momento della loro scoperta e pubblicazione (1994), sono stati sin troppo velocemente accantonati come prova imperfetta. Certamente gli errori compositivi e le intemperanze di vario tipo sono palesi, ma questo non deve cancellare un aspetto fondamentale che si coglie nella strutturazione di questi Appunti, e cioè la ricerca di una terza via tra il racconto meramente cronachistico e la rielaborazione romanzesca, ovvero i principali modi narrativi che si sono affermati (con notevole prevalenza del primo) nell’immediato dopoguerra  per diffondere le vicende resistenziali. Fenoglio certamente partecipava di quella ampia spinta alla narrazione semplice di ciò che era avvenuto, della quale poi parlerà con la consueta lucidità critica Italo Calvino nella premessa alla seconda edizione del Sentiero dei nidi di ragno (1964); ma lo sforzo di Fenoglio era quello di rendere l’azione al presente scenico, quasi che il lettore dovesse rivivere assieme al protagonista l’allontanamento da Alba dopo la riconquista fascista e tutte le vicende susseguitesi fino al dicembre 1944 (periodo a cui si arriva con i quaderni superstiti che ci hanno fatto pervenire i primi sette-otto capitoli degli Appunti). È una narrazione a metà tra cinema e teatro, cosicché questo diario romanzato sembra scritto in presa diretta: “Con la sinistra mi cerco in tasca uno zolfino e con la destra un ciottolo in terra. È bruciata bene, la carta. Fatto tutto camminando” (AP, p. 1413). Chi parla ha la forza del ‘sopravvissuto’ (nel senso dato a questo termine da Elias Canetti) e l’autorevolezza di chi ha scelto la parte giusta, indipendentemente dalle azioni compiute. Il Beppe degli Appunti non è certo un eroe, come non lo sono i suoi compagni: questa constatazione non sminuisce il fatto che questi uomini abbiano agito per la loro madre Langa e per la patria intera, contro nemici che in più di un’occasione sembrano dotati di un potere ben superiore a quello dei giovani e inesperti partigiani. Ma la morte non ha avuto il suo dominio, e la speranza di un amore (quello impossibile, legato a una “bellissima” rimasta in città, o quello più accessibile e vicino della dolce Anna Maria) è intatta. Così non stupisce che un evento di alta drammaticità (che con questa connotazione, assieme a tanti altri, ritroveremo in opere successive, in specie nel Partigiano Johnny), nel quale la vita era davvero a rischio, venga trattato con la leggerezza del resoconto eroicomico di uno scampato pericolo:

Fu mezz’ora dopo questo fatto di Rirì [un partigiano che si nasconde in una tomba] che provammo lo spavento degli spaventi. Camminavamo ai piedi della collina, avendo a destra, a cento passi, il torrentaccio Belbo. E Cervellino mi dà del gomito, guardo insù e in cresta spuntano elmetti come funghi e poi tedeschi s’affacciano a persona intera. Noi e loro stiamo un attimo a fissarci, come conoscenze da un marciapiede all’altro, a vedere chi saluta per primo. Poi noi voliamo quei cento passi e intanto i tedeschi sparano i maledetti sputafuochi e noi non incassiamo neanche un colpo in tre, che era come non bagnarsi nella pioggia. E ci tuffiamo di pancia in quelle due spanne d’acqua e strisciamo all’altra sponda e ci acquattiamo sotto l’erbaccie. E aspettiamo che i tedeschi scendano a farci fuori all’umido. Ma quelli tirano via, e Cervellino dice che l’abbiamo scampata per un pelo di pulce. E mentre ci inginocchiamo nell’acqua e ci aggrappiamo all’erbaccie della sponda per uscire a secco, sull’altro versante sfilano altri tedeschi e gettano a valle bombe a mano, una ogni cinque metri. Di bomba in bomba arrivano su noi. Piccàrd bisbiglia che se non moriamo adesso di piombo moriamo poi tisici. Basta, ci siamo coricati sulla pancia e sentivamo emergere il sedere. Una bomba scoppia a monte di noi e fa un tatuaggio sulla scorza d’un albero. La seconda a valle. I tedeschi proseguono e gettano bombe che non ci riguardano più (AP, pp. 1450 s.; per il ben diverso trattamento di questo stesso episodio nel PJ, cfr. p. 523, e l’analisi in Casadei 2007).

 

La prospettiva della narrazione è insomma volta a far partecipare il lettore alla stessa esperienza dello scrittore, esattamente come è stata percepita: la richiesta di immedesimarsi presuppone che lo scrittore non voglia fornire una mera cronaca dei fatti, bensì li voglia rendere eventi necessari anche se non sono stati vissuti direttamente dal lettore. Potremmo dire che, in questa fase, Beppe partigiano e scrittore si presenta come un io che si sente pienamente parte di un noi: non tutti hanno potuto (o sono stati in grado di) vivere la lotta partigiana, ma è giusto che tutti conoscano l’accaduto concretamente e quasi senza censure, viceversa già praticate in molti resoconti. Questo tentativo, che potremmo addirittura considerare affine, più che al neorealismo allora corrente, alla letteratura-verità che si diffonderà a partire dagli anni Cinquanta, non approda a una pubblicazione per le sue troppe difficoltà (già dal terzo capitolo, inevitabilmente, i tempi si sfalsano ed emerge il presente della scrittura che collide con quello dell’azione), ma è ben rappresentativo della forza cognitiva che Fenoglio vuole comunque imprimere alla sua scrittura: le ingenuità esecutive sono meno importanti della netta manifestazione di un preciso orientamento che sempre si riconoscerà nei grandi testi fenogliani, quando si accompagnerà a uno stile adeguato (le varie forme epiche, popolari ed eroiche, dalla Malora al Partigiano Johnny, il romanzesco-tragico di Una questione privata ecc.).

Ma un altro dato significativo è che, forse addirittura in piena contemporaneità con gli Appunti (la situazione testuale purtroppo non è stata ancora chiarita in tutti i dettagli), ma comunque nello stesso giro di anni (soprattutto 1946-47), Fenoglio gioca le sue prime partite da scrittore puntando a riprodurre forme pure, addirittura non mediate, come il romanticismo estremo dell’amore assoluto di La voce nella tempesta e anche, per quello che si può intendere, del romanzo para-dannunziano testimoniato dal Quaderno Bonalumi. Non è necessario qui entrare nel merito e proporre una scala di valori, che in ogni caso potrebbe solo aggiungere qualche frazione a numeri interi piuttosto bassi. La spinta a manifestare nella scrittura sublime una propria condizione esistenziale prevale su ogni tipo di distanziamento rispetto ai modelli, assorbiti ancora in una dimensione scolastica e volontaristica: ma è proprio a quell’assolutezza, una volta possibile e ora non più, a un secolo e mezzo dal primo romanticismo, che il giovane scrittore Fenoglio aspira. Non mancarono ben presto versioni più addomesticate e borghesi degli stessi temi, manifestate intanto nelle Serenate a Bretton Oaks, primo esempio di un’azione teatrale multipla (come nel modello-archetipo Our Town di Thornton Wilder), poi replicato in varie modalità, drammatiche e narrative. Resta però decisivo il gesto iniziale, quello di rappresentare nello stesso periodo la guerra come se fosse riproposta in diretta ma quasi depurata dei suoi aspetti tragici e crudeli, e l’amore, invece, solo attraverso di essi. Quando queste due componenti primarie della narratività fenogliana, l’immediatezza e l’assolutezza, cominceranno a fondersi e a modificarsi reciprocamente, si arriverà ai suoi risultati più alti.

 

3. Il superamento di questa fase coincide, tra il 1948 e il ’54, con l’accostamento evidente ai moduli della narrativa statunitense, secondo una tendenza ben diffusa. Certo vanno precisati i modelli più direttamente attivi in Fenoglio: Hemingway, specie per i racconti, riveste un ruolo decisivo, mentre alcune atmosfere di provincia possono essere mediate dal ricordo di Faulkner e di Steinbeck. Quest’ultimo, meno nominato in rapporto alle opere fenogliane, svolge però un ruolo decisivo nella Paga del sabato: come è stato sottolineato di recente, la coppia Ettore-Palmo deve molto a quella George-Lennie di Uomini e topi (Of Mice and Men, 1937), tradotto da Pavese già nel 1938 e adattato per un film nel 1939 (ma la pellicola era di nuovo in circolazione nella zona di Alba nel 1947). L’acquisizione, che potrebbe rivelarsi importante pure a livello strutturale (dove peraltro agiscono anche altri testi allora molto letti, come Soldier’s Home e To Have and Have Not), riveste già una duplice valenza: da un lato, conferma che l’ancoraggio a modelli ben consolidati alla fine degli anni Quaranta costituiva una garanzia per questa prima fase di scrittura ‘professionale’ (e questo stabilisce pure un suo limite: sia detto contro recenti e superficiali tentativi di rivalutazione, che prendono per novità tratti che sono sin troppo esattamente nella media della narrativa coeva); dall’altro, permette di cogliere meglio le effettive specificità di un testo senz’altro di notevole impatto, costituito da scene autonome e ben enucleate. Basti pensare a quella iniziale dello scontro con la madre, e poi alle varie dedicate all’insofferenza delle costrizioni con la ragazza-promessa sposa, al rapporto noir con gli altri ex-partigiani e con un mondo in bilico tra miseria e malavita, sino a quella conclusiva della morte ‘stupida’ di Ettore, che allude per la dinamica (il protagonista schiacciato da un camion, in questo caso guidato da Palmo) a quella reale del maggiore inglese Temple, ricordata in chiusura del cap. 15 del Partigiano Johnny (PJ, p. 581).

Ma l’aspetto sinora poco evidente è quello della funzione di reciproca integrazione fra l’intelligente e disperato Ettore e lo sciocco e adattabile Palmo: non è un caso che alcune azioni accadute durante lo scontro di Valdivilla (24 febbraio 1945), l’evento bellico sempre ricorrente nei testi fenogliani, siano qui attribuite proprio a Palmo (all’inizio del cap. 8: PS, ed. Pedullà 2012, pp. 84-86), mentre altrove riguardano i vari doppi dello scrittore (su ciò si tornerà più avanti); d’altra parte, lo stesso personaggio era stato accusato in precedenza (cap. 4: PS, ed. Pedullà 2012, p. 39) di essersi comportato da vile proprio in quella circostanza: e l’accusa viene da Ettore, il quale in seguito, quasi per contrappasso, sente nel suo corpo tutta l’angoscia della morte in battaglia, arrivata per gli altri ma destinata pure a lui. Esattamente come capiterà a Johnny, “[Ettore] tremò, lì, di colpo, come se gli si fosse parato davanti un pericolo di morte così preciso ed avanzato che il terrore era già agonia e come sotto i piedi si sentisse aprirsi la terra della collina, pronta per il suo cadavere” (PS, ed. Pedullà 2012, p. 86).

L’ipotesi più plausibile è che Ettore e Palmo rappresentino qui due facce dell’autore, due estremi, uno di chi vive al di sopra e l’altro di chi vive al di sotto della normalità, ovvero dell’accettazione delle convenzioni borghesi, continuamente richiesta al reduce Beppe Fenoglio. L’apparente contrapposizione e insieme la nascosta complementarietà di questi personaggi esibisce un processo che ritroveremo più volte, quello di una scissione e di un vedersi vivere che rimanda a un atteggiamento di fondo, non certo astrattamente psicanalitico o letterario (pirandelliano), bensì conseguente a una domanda inespressa sul senso stesso dell’agire. Il finale grottescamente tragico, con la parte sciocca che uccide quella consapevole e lucida, in realtà non tocca ancora i nuclei più propriamente fenogliani: non è per esempio possibile trattare in modo approfondito, nella Paga, lo scardinamento profondo che la percezione di una morte insediata dentro al proprio vivere produce in chi prova a ripensare il senso delle proprie azioni, a cominciare da quelle extra-ordinarie compiute in battaglia.

In quello stessa fase, invece, si cominciano a far strada alcuni di questi nuclei nei racconti dei Ventitre giorni…, dove peraltro emergono tra molte mediazioni, specialmente quella eroicomica sino all’esibizionismo nel testo eponimo. Ma è in un racconto non incluso nella raccolta, eppure assai significativo, che emerge un tratto infandum: si tratta di Nella valle di San Benedetto, la cui matrice, i racconti fantastico-gotici di E.A. Poe, è ben nota e non ha bisogno di essere dimostrata. Certamente appare velleitario il tentativo di fondere una materia realistica, ricavata dagli stessi episodi narrati negli Appunti partigiani, con l’atmosfera macabra che deriva dal fatto che l’anonimo partigiano protagonista (mentre l’antagonista si chiama già qui, ed è notevole, Giorgio) si chiude in una tomba. Ma il punto non è, pure in questo caso, quello di sottolineare le debolezze artistiche, quanto quello di capire quali valenze narrative ulteriori possiamo riconoscere per precisare l’itinerario dell’inventio fenogliana. Qui è singolare che dapprima venga attribuita a Giorgio una caratteristica (“non sapeva aspettare, ecco, gli mancava quella che io chiamo la forza dell’attesa”), che poi si rivela come un tratto addirittura già adolescenziale del protagonista:

Mi ricordai che da ragazzo giocavo ogni sera d’estate con tutti gli altri ragazzi della mia piazza a un gioco a nascondersi e a prendersi. Se toccava alla mia squadra di nascondersi, io andavo a nascondermi in qualche angolo buio e lì aspettavo che il mio capo desse il segnale che gli altri potevano mettersi a cercarci. Da allora io mi irrigidivo dolorosamente e tenevo il fiato sino a che il petto mi faceva male e poi tornavo a respirare, ma solo quel tanto che bastava per vivere. Vedevo i cercatori passarmi davanti con le braccia protese e avevo paura che i miei occhi fossero fosforescenti. I loro erano fosforescenti. Poi qualcuno dei cercatori si insospettiva, mi si fermava davanti e verso di me allungava la testa e le braccia. C’era ancora una probabilità che pensasse di essersi sbagliato e passasse via, ma io avevo già perduta la testa e lo chiamavo col suo nome e mi slanciavo in avanti ad arrendermi. Ciononostante tremavo tutto e quando l’avversario alzava la mano per calarmela sulla spalla e farmi così suo prigioniero, quel gesto mi fermava il sangue.

Quel ricordo mi cadde addosso come una irrimediabile condanna. Non potevo mentire a me stesso, non ero cambiato, a vent’anni in guerra con la repubblica e i tedeschi avevo lo stesso cuore di quando avevo otto anni e giocavo a nascondersi e prendersi. No, non avrei aspettato tanto, avrei gridato prima, prima che mettessero mano all’anello [della tomba]. Anzi, se avessi potuto da solo spostare la pietra, sarei uscito fuori e andato loro incontro (Nella valle di San Benedetto, p. 1212).

Un carattere tipico del protagonista era stato individuato e traslato come difetto dell’antagonista. Ma nel seguito del racconto, grazie a una rivelazione tanto più significativa quanto meno necessaria sul piano dell’azione, il corpo stesso del protagonista manifesta un suo carattere profondo, la paura per l’imminenza di una forza maggiore, potenzialmente mortale (paragonabile a quella di mostri-fantasmi dagli occhi fosforescenti). Il riconoscere una continuità nella propria biologia può essere un tratto dolce-accorante, come per il Leopardi della Sera del dì di festa; ma qui diventa un segno negativo, una “irrimediabile condanna”, l’impossibilità di reggere la sensazione della morte che incombe. In un racconto sin troppo manieristico, è questo il tratto più impressionante, e riguarda un nucleo che con sempre maggior forza si presenterà negli scritti di Fenoglio.

Questo accade, indirettamente, persino in un testo che pare evitare ogni contiguità con l’autobiografia (se non, è ovvio, per la conoscenza diretta degli ambienti descritti) quale La malora. Il fatto è che un episodio satellite, dunque in apparenza secondario e tuttavia decisivo a livello interpretativo, è quello del suicidio per impiccagione di Costantino del Boscaccio. In una vicenda scandita dal ritmo della natura e della vita agra da forzati della terra, in un certo senso è proprio il darsi la morte l’evento inatteso, quello che paradossalmente segna la possibilità di uscire dalla ‘malora’ come forza sovrastante. Come si sa, penetrando in un boschetto “così serrato che sembrava d’entrare in uno stanzino” (Ma, p. 187; più avanti si noteranno le analogie con il finale di Una questione privata), ad Agostino Braida capita di imbattersi casualmente nel corpo penzolante di chi si è dato la morte. Ne deriva però non solo un comprensibile moto di orrore, ma addirittura un terrore irrefrenabile che, con le grida, si propaga in maniera iperbolica a tutto il paesaggio circostante, costringendo alla fuga persone e animali, tanto che “perfino gli uccelli scappavano nel cielo” (ibid.). Eppure Agostino non aveva avuto il coraggio di guardare il morto in faccia, nel senso letterale dell’espressione: “non mi sono mai lasciato scappare che in faccia non l’avevo guardato, ma quando contavo la mia avventura, e me l’avranno fatta contare cento volte, nei particolari della lingua e degli occhi m’aiutavo con quello che avevo sentito dagli altri” (Ma, p. 188). Come aveva compreso Primo Levi, persino il testimone più sincero non sa e non può dire tutto di un evento orrendo: Fenoglio stesso dovrà lasciare passare altro tempo prima di raggiungere una cognizione forte di ciò che ha vissuto in guerra, addirittura cominciando a guardare in faccia alla morte per poterne scrivere.

 

4. La crisi del 1954, successiva alle difficoltà incontrate dalla Malora, è limpidamente manifestata dal Diario. Ci sarebbe da discutere ancora sui motivi che spinsero Vittorini al famigerato risvolto: forse esso testimonia soprattutto le sue personali difficoltà a trovare una strada narrativa che superasse i rischi del neoverismo senza tornare allo ‘scrivere bene’ passatista. Siamo in effetti nel periodo che porterà ben presto a nuove sperimentazioni, dapprima di Pasolini e di “Officina”, poi del Sanguineti di Laborintus; dal canto suo Vittorini, in quel momento ancora molto influente ma senza un séguito reale, pure in altre bandelle dei Gettoni propone microsaggi che dovrebbero indicare vie utili a tutti (persino a lui stesso, alle prese con le tante contraddizioni dei suoi progetti incompiuti, come Erica e i suoi fratelli, oppure le stesure o le revisioni delle Donne di Messina e delle Città del mondo). Insomma, il risvolto della Malora ci rivela di più sulla situazione letteraria di Vittorini che non sul valore del romanzo breve fenogliano: ma certo non così poteva essere interpretato dal giovane e insicuro autore, che sente di aver “piantato i paracarri e non aver fatto la strada” (Diario, in Opere, III, p. 206). L’affermazione potrebbe anche essere letta nel senso che, rispetto alle sue tante potenzialità narrative, i temi fondamentali ancora non erano emersi: tuttavia questo spinge Fenoglio a continuare la scrittura, a cercare di soddisfare quell’unico obiettivo esistenziale che è in fondo il suo voler essere eroe-narratore di sé. Così, con un atteggiamento di “deep distrust and a deeper faith”, che è poi quello dell’amato Thomas E. Lawrence secondo Edward M. Foster (come aveva già fatto notare Eduardo Saccone), egli incomincia idealmente un nuovo cammino verso la sua compiutezza come autore, così sintetizzato nell’appunto Ego scriptor del Diario (ivi, p. 201):

 

La Malora è uscita il 9 di questo agosto. Non ho ancora letto una recensione, ma debbo constatare da per me che sono scrittore di quart’ordine. Non per questo cesserò di scrivere ma dovrò considerare le mie future fatiche non più dell’appagamento d’un vizio. Eppure la constatazione di non esser riuscito buono scrittore è elemento così decisivo, così disperante, che dovrebbe consentirmi, da solo, di scrivere un libro per cui possa ritenermi buono scrittore.

 

Questa sorta di controspinta, di reazione all’esito considerato non positivo, perlomeno a causa del risvolto, genera il ripensamento che porterà Fenoglio a scrivere la sua esperienza di partigiano, e in generale di giovane formatosi sotto il regime fascista, così come la rileggeva a distanza di un decennio e più, in un contesto storico-sociale che, al di là delle condizioni strettamente politiche ben note, sembrava aver cancellato ogni speranza di una profonda palingenesi morale, mentre si faceva sempre più evidente la spinta di tipo capitalistico americanizzante, concretizzatasi di lì a poco negli anni del boom. Quel tipo di società e quel tipo di letteratura (che sarà quella di Fratelli d’Italia, per citare il testo più emblematico) non saranno mai ospitate nell’opera fenogliana; ciononostante, il suo tentativo fra il 1955 e il ’58-’59 fu quello di costruire un ‘libro grosso’ su una fase storicamente decisiva, dal periodo intorno all’entrata in guerra all’armistizio del ’43 alla problematica vittoria del ’45. È certo utile, come ha fatto soprattutto Roberto Bigazzi, seguire l’intera configurazione di questo progetto, esaminandolo a partire dai capitoli iniziali della prima redazione di Primavera di bellezza, poi accantonati nell’edizione a stampa del 1959, per arrivare a quelli rimasti in ‘fenglese’ dell’Ur-Partigiano Johnny, che presentano alcune delle vicende del protagonista presso le forze anglosassoni. Tuttavia non è corretto porre sullo stesso piano la parte centrale ed essenziale di questo progetto, quella relativa alla lotta resistenziale che leggiamo col titolo di Partigiano Johnny (e secondo il restauro operato da Dante Isella), con altre revisionate certo sotto l’incalzare dell’editore (il romanzo edito come Primavera di bellezza) o invece accantonate presto dall’autore stesso, che non ha ritenuto opportuno rielaborarle perché troppo deboli e prive di elementi significativi rispetto alla vicenda storica e insieme epica vissuta da Johnny sino allo scontro di Valdivilla. Le ragioni del testo non possono essere forzate al punto da eliminare una verità filologicamente indiscutibile, e cioè che la sezione del ‘libro grosso’ più vicina a quella che sarebbe stata la volontà ultima dell’autore è rappresentata dalla seconda (o, in sua assenza, dalla prima) redazione del nostro Partigiano Johnny.

È inutile ovviamente tornare su questioni ormai acclarate, come quella della cronologia e del rapporto Primavera / Partigiano. Certo, per evitare molte discussioni forse sarebbe bastata qualche constatazione inoppugnabile, per esempio quella che nell’attuale cap. 1 di PJ si fa riferimento a un dettaglio (una divisione tedesca in transito per Savona) che trova una spiegazione solo nell’attuale cap. 14 di Pdb (cfr. ed. Isella 2001, pp. 433 e 392): riscontro già sufficiente a dimostrare senza dubbi la continuità dei testi fino a poco prima della lacerazione decisa per i vari motivi editoriali emersi, almeno per i dati esterni, con la pubblicazione integrale del carteggio tra l’autore e Livio Garzanti. In ogni caso, la scelta di far terminare il ‘libro grosso’ con l’uccisione di Johnny a Valdivilla è il frutto di un ripensamento autonomo di Fenoglio (cfr. la lettera del 12 sett. 1958: Lettere, p. 95). E non si tratta certo di una chiusura casuale, perché non è affatto vero, come tuttora spesso si ripete pedissequamente, che la morte dell’eroe (o antieroe) può arrivare in qualunque momento nei testi fenogliani. Nel ‘libro grosso’, lo scrittore ha progressivamente rivelato, prima di tutto a se stesso, che la percezione della presenza della morte nella vita del suo protagonista è l’esito ultimo che la guerra vissuta lascia nel superstite. Questo non perché si neghino i valori della Resistenza, che Johnny e il suo autore ribadiscono sino alla fine e, qui, senza distanziamenti eroicomici ma anzi all’insegna di quell’epica storica che, a partire dall’Iliade, dà conto anche della grandezza di chi è caduto; e però Johnny doveva cadere a Valdivilla, sia per una ragione personale dell’autore (su cui torneremo più avanti), sia per la logica stessa del testo, che continuamente ripete i segnali della morte imminente, allo scopo di confermare l’impossibilità di evitarla pur combattendo dalla parte giusta.

Che a questo esito si dovesse giungere ce lo dimostra già la lunga parte preparatoria costituita da Primavera di bellezza: da leggersi però con i primi otto capitoli poi espunti, che sono fondamentali per comprendere tante caratteristiche del protagonista e della società che lo circonda, dai fascisti spacconi e grevi, ai borghesi vacui, ai possibili ribelli, come appunto l’anglofilo Johnny. Soprattutto prima della ripulitura che ha portato in fretta alla versione stampata nell’aprile del 1959, la prima parte del dittico riservava molti motivi di interesse, persino di tipo sociologico: forse proprio dagli scenari della provinciale Alba e della grandiosa e decaduta Roma si ricava il miglior quadro realistico (senza bisogno di prefissi o aggettivi) della fase più plumbea del Ventennio. Ma qui importa notare che, proprio nei capitoli espunti, là dove si cominciava a delineare il carattere di Johnny, si trova una pagina che è davvero un’anticipazione di quanto più volte capiterà di leggere nell’attuale Partigiano Johnny, ovvero la percezione fisica di una condizione potenzialmente mortuaria. Nel terzo di quei capitoli l’ancora studente universitario Johnny rifiuta lo studio di un saggio su Luca Signorelli, attività fortemente inappropriata rispetto al momento storico (è il 1942), e decide di immergersi in una conca d’acqua, molto più profonda che larga (quasi come un pozzo o una tomba verticale):

Scese all’acqua, inseguito da rivoli di terra friabile. Le acque al centro del fiume erano tiepide e preziosamente colorate, come sotto i raggi di un più nobile sole, di tanta attrazione che si tuffò di colpo, lui abituato all’immersione lenta, graduata. Nuotò al mezzo e vi si fermò. Si mise eretto, respirò profondo e affondò verticalmente, al punto estremo d’immersione i suoi piedi pedalando a vuoto a un metro dal fondo. Risalì e nuotò in circolo. Il lontano fracasso del frantoio e lo stridere dei carri fiumaroli che guadavano a valle gli arrivava all’orecchio viaggiando sul pelo dell’acqua, insieme con quello che forse era il dorato ronzio di api selvatiche. Riaffondò, ma stavolta senza controllo, come un affogato. Ora rollava su quel letto immateriale, ogni suono escluso [come capiterà nel finale di PdB e di QP$], salvo un lievissimo sciabordare contro le orecchie. Con uno scatto si volse prono ed esaminò il fondo, tetro e vischioso, con banchi di tufo come materia siderale incassata in un letto violetto, mortuario. Rigalleggiò supino e sotto quel metro d’acqua il remotissimo sole non era più che il ripugnante faccino cianotico di un neonato; ma se si riaccostava al primo velo dell’acqua, ecco che il faccino si dilatava smisuratamente, sprigionava una luce e un calore insopportabili. Riemerse e nuotò fin che i polpastrelli gli si aggrinzirono dolorosamente. Allora riguadagnò la riva, il piano erboso imbandierato dei suoi libri e vestiti, e corse avanti e indietro e volò oltre immaginari ostacoli, le gocce d’acqua saltando via dal suo corpo seccamente come schegge (PdB, I red., in Opere, I.3, p. 1281).

 

Questo magnifico brano ha evidenti consonanze con molti successivi (ci si tornerà più avanti). Concentriamoci però sull’azione ripetuta dello sprofondare verticalmente, quasi precipitando agli inferi, per poi riemergere ma in un contesto in cui persino il sole appare a lungo come “il ripugnante faccino cianotico di un neonato”, potentissima similitudine ossimorica nella quale vita e morte davvero si stringono indissolubilmente. Questa stessa situazione del provare, prima di tutto nel corpo, la ‘morte imminente’  capiterà di nuovo a Johnny durante la sua lotta come partigiano, e quindi di essa il brano appena citato doveva costituire un’anticipazione, un segno premonitore, quando ancora la lotta stessa non era prevedibile:

Dopo le raffiche del mattino, il bosco aveva per lui un nuovo haunting, come di vera officina della natura, nel vibrante silenzio, e con occhio attento e passo leggero scansava i punti anormalmente sollevati, quasi enfiati, con sopra l’erba più alta e bianchi fiori come increduli e sgomenti di quel loro spropositato rigoglio. Apparve in basso il torrente: dalle sue esilissime acque, insufficienti anche per l’annegamento d’un bimbo, sortiva un fiero barbaglio, acuto e aggressivo, come un gioco di spade. Non passò sul ponte […] perché l’idea del guado lo mise in infantile eccitazione. Guadava: l’acqua era fredda e gli massaggiava energicamente le caviglie, beneficamente. Ma come approdò […] notò ai margini della corrente principale una conchetta d’acqua, naturalmente azzeccata e felice. Johnny non ci resisté, si liberò del vestito e delle armi, e si immerse verticalmente, monoliticamente in quell’immobile vortice, fino alle spalle, con un lungo e filato fremito, equivalente perfetto, più perfetto, di una discarica sessuale. […] Mai come in quel momento era stato tratto, forzato a pensare, vedere la sua propria realtà fisica, la sua carnale sostanza e forma. Era persino miracoloso il constatare, realizzare appieno, per la prima volta, le facoltà, gli usi e le forme specifiche ed irripetibili di ogni parte. […] Il pensiero della guerra piombò come un’ala grigia, non nera, sulla dorata bianchezza della sua pelle […]. Era enormemente, forse sacrilegamente, eccitante pronosticare, fantasticare il bersaglio e il varco aperto in quella intatta integrità. Scrollò le spalle, sazio d’immobilità, di fantasia e di rinfresco, e si rivestì in fretta (Il partigiano Johnny, cap. 19, pp. 625-6)

 

L’esperienza della guerra ripensata  conduce a percepire che quella premessa legata a un momento apparentemente tranquillo e lontano si ripete ora, nel fitto della guerra civile, e soltanto come prova generale di una morte che non potrà non avvenire, tanto da essere addirittura pronosticata e immaginata in quel momento: prima cioè di riprendere il proprio posto nella vita ‘normale’ che, lungi dall’essere davvero tale, è invece quella di una guerra necessaria e giustissima, ma che non può riscattare comunque, nemmeno con l’ipotesi di una gloria futura, il dolore profondo di chi percepisce la propria mortalità. E qui devo tornare su un passo splendido, uno dei più alti dell’intera produzione fenogliana, decisivo per comprendere i motivi profondi della scrittura di questo autore. Si tratta della conclusione del primo scontro a fuoco di Johnny, durante il quale ha ucciso un nemico e ha rischiato a sua volta di essere colpito da un proiettile sparato da lontano (senza cioè che l’avversario fosse nemmeno visibile). L’esito dello scontro è stato positivo, e in un primo tempo Johnny conosce la gioia del sopravvissuto, quella del Beppe degli Appunti, e si sente affine ai suoi compagni sebbene siano tante le differenze con il Biondo e gli altri rossi assieme ai quali ha combattuto. Ma poco dopo, venendo già a un effettivo ripensamento, ecco cosa prova Johnny:

Posò il moschetto e si sedette su un tratto libero del muretto, altissimo. La stanchezza l’aggredì, subdola e dolce, e poi una rigidità. Poi nella sua spina dorsale si spiralò, lunga e lenta, l’onda della paura della battaglia ripensata. Anche agli altri doveva succedere lo stesso, perché tutti erano un po’ chini, e assorti, come a seguire quella stessa onda nella loro spina dorsale. Una battaglia è una cosa terribile, dopo ti fa dire, come a certe puerpere primipare: mai più, non mai più. Un’esperienza terribile, bastante, da non potersi ripetere, e ti dà insieme l’umiliante persuasione di aver già fatto troppo, tutta la tua parte con una battaglia. Eppure Johnny sapeva che sarebbe rimasto, a fare tutte le battaglie destinate, imposte dai partigiani o dai fascisti, e sentiva che si sarebbero ancora combattute battaglie, di quella medesima ancora guerra, quando egli e il Biondo e Tito e tutti gli uomini sull’aia (ed ora apparivano numerosi, un’armata) sarebbero stati sottoterra, messi da una battaglia al coperto da ogni battaglia.

Gli uomini erano così immoti ed assorti, così statuari pur con quella percorrenza dentro, che i figli dei contadini entrarono tra loro, taciti e haunted, come in un museo (PJ, pp. 516-7).

 

La condizione di Johnny, rappresentante in questo caso di qualunque soldato che ha appena finito di mettere in gioco la sua vita per distruggere quella dei nemici, è di essere haunted, infestato dalle sue sensazioni, percezioni, premonizioni fantasmatiche. Qui per la prima volta Fenoglio ha il coraggio di esplicitare quanto aveva fatto appena intuire in tanti testi anteriori, per esempio quelli che abbiamo citato: questa paura della morte imminente penetra dentro il corpo, da intendersi (secondo quanto ormai ci insegnano le neuroscienze) come insieme indissolubile di sensazioni fisiche ed elaborazioni cerebro-mentali. È una condizione ‘universalmente umana’, per citare Goethe, perché accomuna persino due esseri in apparenza totalmente diversi, come un soldato che ha combattuto e ucciso  e una madre al primo parto. È la condizione di chi sa che la morte è parte integrante della vita e non punta a spiegare il certum con la razionalità, del tutto insufficiente, bensì a descrivere e ricreare questa situazione con l’unico strumento che consente di riprodurre e insieme rielaborare la realtà nella sua interezza, fatta di oggettività e di soggettività, di esperienza e di ripensamento dell’esperienza: la letteratura.

 

 

 

 

 

Nota al testo

 

I testi narrativi sono citati da B.F., Romanzi e racconti, a cura di D. Isella, Torino, Einaudi, 20012; quando necessario, si è fatto ricorso all’edizione delle Opere, ed. critica diretta da M. Corti, con la collaborazione di M.A. Grignani, P. Tomasoni et alii, voll. 3 (il primo in 3 tomi), ivi 1978, o a quelle di Tutti i racconti, a cura di L. Bufano, ivi 2007 e di Tutti i romanzi, a cura di G. Pedullà, ivi 2012; per il Teatro è stata impiegata l’ed. a cura di E. Brozzi, ivi 2008; per le Lettere (1940-1962) l’ed. a cura di L. Bufano, ivi 2002; per le traduzioni dall’inglese, Quaderno di traduzioni, a cura di. M. Pietralunga, ivi 2000.

Le sigle corrispondono a quelle consuete per le varie opere di Fenoglio: AP = Appunti partigiani; Ma = La malora; PdB = Primavera di bellezza; PJ = Il partigiano Johnny; QP = Una questione privata.

 

Bibliografia essenziale

 

La bibliografia più recente può essere reperita in R. Bigazzi, Fenoglio, Roma, Salerno Ed., 2011 e in A. Rondini, Fenoglio senza Resistenza. Dieci anni di ricezione critica (2003-2012), “Testo”, XXXIV, 2013, gen.-giu., pp. 125-143, cui va aggiunto, da ultimo, S. Jossa, Un paese senza eroi, Roma-Bari, Laterza, 2013, pp. 225-37.

Fra le opere menzionate o tenute in considerazione nel presente saggio, oltre alle introduzioni delle edizioni fenogliane citate nella Nota al testo, si vedano soprattutto:

 

Beccaria, Gian Luigi, La guerra e gli asfodeli. Romanzo e vocazione epica di B. Fenoglio, Milano, Serra & Riva, 1984

Bigazzi, Roberto, Fenoglio: personaggi e narratori, Roma, Salerno Ed., 1983

Boggione, Valter, La sfortuna in favore. Saggi su Fenoglio, Venezia, Marsilio-Fondazione Ferrero di Alba, 2011

Bufano, Luca, Beppe Fenoglio e il racconto breve, Ravenna, Longo, 1999

Casadei, Alberto, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2007

Casadei, Alberto, Gli ultimi progetti di Fenoglio: il partigiano Nick fra narrativa e teatro, in c.s. in “Italianistica” (2014)

Duretto, Ida, “La paga del sabato” e Steinbeck, in “Italianistica”, XLII (2013), 1, pp. 141-4

Falaschi, Giovanni, La resistenza armata nella narrativa italiana, Torino, Einaudi, 1976

Innocenti, Orsetta, La biblioteca inglese di Fenoglio. Percorsi romanzeschi in “Una questione privata”, Manziana (Roma), Vecchiarelli, 2001

Ioli, Giovanna (a c. di), B. Fenoglio oggi. Atti del convegno di S. Salvatore Monferrato 1989, Milano, Mursia, 1991

Mengaldo, Pier Vincenzo, Il Novecento, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 175-9

Negri Scaglione, Piero, Questioni private. Vita incompiuta di Beppe Fenoglio, Torino, Einaudi, 2006

Palmieri, Nunzia, Beppe Fenoglio. La scrittura e il corpo, Firenze, Le Lettere, 2012

Pedullà, Gabriele, La strada più lunga. Sulle tracce di Beppe Fenoglio, Roma, Donzelli, 2001

Rizzo, Gino (a c. di), Fenoglio a Lecce. Atti dell’incontro di studio su B. Fenoglio (Lecce, 25-26 nov. 1983), Firenze, Olschki, 1984

Saccone, Eduardo, Fenoglio. I testi, l’opera, Torino, Einaudi, 1988

Soletti, Elisabetta, Beppe Fenoglio, Milano, Mursia, 1987