Riflessioni su poesia e conoscenza
Risposte a una serie di domande sul rapporto poesia-conoscenza, anche in relazione agli sviluppi delle neuroscienze e della ‘Poetica cognitiva’. Su questi argomenti, si può vedere A. Casadei, Poetiche della creatività, Bruno Mondadori 2011.
1) Come è possibile oggi intendere la poesia e la narrativa come forme di conoscenza della realtà?
I rapporti fra le arti, le scienze e quella che noi chiamiamo ‘realtà’ (ma bisognerebbe precisare bene a livello terminologico e concettuale) sono stati variabili nel tempo. Per una lunga fase, le arti, a cominciare dalla poesia, erano assai vicine e affini alle religioni e alle prime filosofie, tanto che i presocratici erano ottimi poeti, così come i cultori dei riti orfici. A quell’epoca era evidente che l’interpretazione della realtà e del mondo passavano attraverso varie forme di conoscenza, senza escludere ovviamente quella ‘scientifica’ dell’epoca: Eraclito proponeva teorie filosofico-letterarie che anche oggi gli scienziati ammirano, almeno per la qualità delle ipotesi e dei concetti.
Le cose si sono poi progressivamente complicate per la divisione sempre più forte dei saperi, propugnata in modi diversi sia da Platone che da Aristotele: nessuno dei due ha più concesso il crisma della ‘vera conoscenza’ alla poesia, eppure entrambi capivano, magari e contrario, che la letteratura aveva uno spazio fondamentale nella comprensione integrata della realtà.
Ecco, io credo che anche oggi, a distanza di millenni dal mondo greco, resti vero che la poesia è in grado di fornire un’interpretazione complessiva del reale, che tenga conto non delle sue leggi astratte, ricavate dagli scienziati puri o dai filosofi teoretici, ma della combinazione corporea di elementi biologici e di invenzione-ricombinazione-stilizzazione. In altri termini, la visione del mondo che, attraverso un uso completo (e non meramente comunicativo) del linguaggio, noi possiamo avere in poesia implica alcuni presupposti fondamentali di ogni essere umano, quelli che le scienze cognitive stanno mettendo sempre più in rilievo, a cominciare dalle tendenze al blending (mescolanza metaforica), alla sottolineatura delle regolarità, alle iperboli ecc., e più in generale alla risposta emotivo-cognitiva anche a eventi solamente visti (sono le implicazioni della scoperta dei neuroni-specchio, che Vittorio Gallese sta sottolineando efficacemente pure per le arti visive e la narrativa).
Detto in altri termini, come già notava il grande matematico Jacques Hadamard, in realtà gli scienziati e i poeti (o gli artisti in genere) partono da procedure biologico-cognitive simili, e solo la società moderna, dalla fine del Settecento a oggi, ha sempre più dato peso alle scoperte dei primi per la comprensione della realtà. Ma si può senza alcun dubbio sostenere che, del Medioevo, noi capiamo e sappiamo molto di più leggendo il poema di Dante che non cento trattati ‘scientifici’ dell’epoca. Dante ci dà una visione integrale e stilisticamente perenne della sua comprensione del mondo, della sua cultura e anche della sua umanità; i trattati, al massimo, ci restituiscono alcuni dettagli di quel sapere. Ecco, io credo che la comprensione della realtà, comprendente sia il mondo esterno che quello interiore (secondo una prospettiva fenomenologica, ora molto importante anche in ambito cognitivista), possa e debba tener conto di quanto sappiamo sulle leggi della materia, o sulla genetica, o sulle relazioni corpo-mente, ecc., ma anche di quella forma di comprensione-mediazione-ricreazione della realtà che l’arte in genere e la poesia in particolare (fatta di parole, ma anche di ritmi e di immagini) sanno fornire a ciascuno di noi.
2) Come opera la cosiddetta “Poetica cognitiva”, già diffusa soprattutto in area anglosassone ma anche in Germania e in altri Paesi europei?
Le nuove tendenze dell’analisi dei testi letterari non possono non tener conto degli sviluppi delle scienze cognitive perché, come segnalavo già nella risposta precedente, esse intersecano tutti i processi creativi, sia scientifici che artistici. In particolare, la Cognitive poetics cerca di dare meglio conto del perché certe opere ci coinvolgono e colpiscono più di altre: si parte dalle questioni di base, per esempio la buona costruzione di un intreccio romanzesco o in particolare poliziesco, e si arriva ai classici più assoluti, da Omero a Dante a Shakespeare ecc. Quello che personalmente ritengo è che il processo di inventio letteraria, noto sin dall’antichità ma mai studiato sino in fondo, possa essere molto meglio chiarito grazie a un serrato confronto con le scienze cognitive: e sono ormai diversi, anche in Italia, gli studiosi che si stanno orientando in questo senso.
Non si tratta però di applicare banalmente princìpi ricavati dalla linguistica cognitiva o dalle neuroscienze. La poesia e con lei la critica letteraria possono fornire un apporto interessante al dibattito culturale in corso se analizzano i propri elementi fondativi e poi sottolineano le consonanze con teorie attuali (o anche con semplici aspetti del funzionamento corporeo-cerebrale inconscio, che spesso è stato decisivo nello sviluppo della poesia dopo il Romanticismo). Per fare un esempio: molta poesia dell’Otto e del Novecento è oscura, irriducibile a una parafrasi condivisa, e ciononostante tutti capiamo che quei testi (per esempio quelli di Arthur Rimbaud, Paul Celan o in Italia di Amelia Rosselli) hanno un senso profondo. Ecco, l’analisi linguistica può solo mettere in evidenza le incoerenze, quella sociologica ci fornisce spiegazioni troppo generiche, quella psicanalitica punta sugli aspetti ‘patologici’ e spesso ci si è accontentati di queste spiegazioni. Ma se invece noi adesso proviamo a verificare come si può ricostruire un senso in poesia, pur stravolgendo tutte le regole della comunicazione ‘normale’, bene le scienze cognitive ci forniscono alcuni strumenti preziosi (per esempio il concetto di elemento attrattore, o quelli di sfondo-scenario-primo piano, o quello già citato di blending ecc.), i quali ci consentono di capire che esistono tanti tipi di oscurità e che in alcuni casi, non sempre, un poeta è in grado di costruire un suo mondo alternativo a quello reale grazie al suo uso stilistico, che diventa così non solo un aspetto esornativo ma una sorta di ‘chiave interpretativa’ di tipo cognitivo, per comprendere una visione speciale (ma non solo assurda o patologica) della realtà.
3) Come si può cominciare a definire la forma di conoscenza ‘sui generis’ propria della poesia?
Molto ho già detto nelle risposte precedenti, ma aggiungo qui che credo che ci siano ancora ampi spazi di collaborazione fra scienziati e studiosi di letteratura, sia confrontando i rispettivi metodi, sia applicando teorie e ipotesi ‘trasversali’, come appunto quelle cognitive. In questo senso, un’analisi sistematica di certi tipi di testi poetici, focalizzando questioni basilari come la percezione del ritmo, la qualità delle metafore e delle figure retoriche, la capacità o meno di creare un ‘mondo possibile’ ecc., può dare l’idea di cosa un poeta (o un artista in genere) s’immagina e riesce a ricreare quando lavora alla sua opera. Molti di questi aspetti sono già da tempo indagati: per esempio la critica della varianti o critica genetica già da molti decenni prende in esame gli abbozzi delle opere per verificare le varie fasi compositive, entrando nella ‘bottega’ degli scrittori.
Ora probabilmente si potrebbe fare anche di più: prendendo in esame sistematicamente gli appunti diaristici che moltissimi artisti moderni hanno scritto, sarebbe possibile capire meglio cosa provavano durante la loro fase creativa, e questi esiti, quasi come in referti sperimentali, potrebbero essere esaminati da varie angolature teorico-metodologiche, per trovare aspetti costanti, tendenze precise ecc. Sappiamo tutti che la conoscenza logico-razionale costituisce solo una parte minima della nostra percezione-comprensione della realtà. Ecco, le opere poetiche, ma anche gli abbozzi, gli appunti degli autori ecc., possono fornirci indicazioni importanti su queste altre forme di conoscenza a- o pre-razionale: il che non vuol dire irrazionale, perché appunto si tratta di circuiti biologico-cognitivi che le arti antiche e soprattutto moderne hanno saputo sfruttare fuoriuscendo dai percorsi compiuti dalle scienze pure. Per lungo tempo queste sono sembrate due culture separate; ora a me pare che possiamo finalmente comprendere che si tratta di due facce della stessa medaglia, e che un grande scienziato è a suo modo un grande poeta della realtà, così come è vero anche il viceversa.