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1 novembre 2013

Di Alberto in: Proposte

Linee di forza della letteratura italiana attuale


Risposte di Alberto Casadei ad un questionario uscito su “Lingua italiana d’oggi” (VIII, 2011)

 

1)      In un contesto nel quale, con l’autorialità, è in crisi il sistema stesso di valori sui quali, per secoli, si è fondata la letteratura, ha ancora senso parlare di un “canone occidentale”?

 

Non sono convinto che il sistema di valori della letteratura in sé sia in crisi. Semmai, il problema è di trovare nuove prospettive per farli emergere, per esempio approfondendo le questioni relative all’inventio, sulle quali possono darci nuovi stimoli le scienze cognitive: e nel contempo la letteratura e le arti in genere possono farci capire molte cose su questioni essenziali per comprendere meglio il rapporto natura/cultura, per esempio consentendo di approfondire il concetto di stile. Insomma, siamo secondo me in una fase di passaggio, nella quale alcuni paradigmi, come quelli della supremazia della cultura umanistica nell’interpretazione del mondo sono caduti, ma altri ne possono nascere, non per cancellare ma per rileggere la lunga storia del rapporto fra materia e forma dell’espressione.

Quanto ai problemi concreti, come per esempio quello della selezione di opere di grande valore, secondo me è necessaria una nuova riflessione: bisogna continuare a selezionare, ovvero a fare critica, ma in termini un po’ diversi da quelli consueti, che spesso associano l’idea di ‘canone’ a una supremazia dispotica e, almeno negli Stati Uniti, tipica di uomini bianchi e occidentali a scapito di tutti gli altri. Il canone è la sintesi provvisoria dei valori che vogliamo attribuire alle opere del passato (persino abbastanza recente, ormai), e varia continuamente: basti pensare agli alti e, spesso, bassi da profondo rosso di Dante, che adesso ci sembra uno dei classici per eccellenza. Ma lo stesso vale per Omero e Virgilio, Shakespeare e Racine, ecc. Attualmente, la critica e i lettori colti sono diventati molto più accoglienti e in molti casi sono disposti ad accettare valori addirittura eterogenei: noi consideriamo grandi autori tutti quelli sopra citati, oppure altri ancora più diversi tra di loro, come Joyce e Proust. Siamo pure disposti a uscire senza remore appunto dai limiti occidentali, con un García Márquez o un Walcott, che peraltro tanto devono ad autori classici europei e statunitensi.

Il problema è che, per il lettore generico, il valore è fondamentale: se escludiamo la letteratura di consumo, che segue regole sue, il motivo che può spingere a leggere un testo piuttosto che un altro è solo quello del suo valore assoluto o almeno relativo (a un periodo, a un genere ecc.). Il sistema dell’industria culturale odierna tende a emarginare la critica indipendente, perché quest’ultima cerca di proporre valori alternativi a quelli del mercato: purtroppo negli due decenni quest’opera di emarginazione è riuscita piuttosto bene. Il risultato è che i successi non legati all’establishment non sono più decretati dai critici, bensì dai blog e da internet, quindi da gruppi organizzati di scrittori-lettori, che riescono a sostenere un’opera senza un effettivo confronto con la critica, e anzi addirittura proponendo un’interpretazione storico-letteraria ritagliata su misura.

Delineato il contesto, soprattutto pensando all’Italia, io credo nell’assoluta necessità di allargare il pubblico dei lettori capaci di un giudizio autonomo, che sostenga, come avviene per esempio negli Stati Uniti, autori validi ma che non godono di un successo commerciale. Per questo tipo di pubblico è importante una buona formazione scolastica, basata su alcuni grandi classici: se nella scuola italiana si chiedesse, per tutti, una lettura ampia di dieci-dodici capolavori della nostra letteratura, un gusto già si formerebbe, e rimarrebbe poi molto tempo per leggere altri classici stranieri, oppure opere contemporanee magari, per invogliare, con un taglio tematico o comunque scelto dagli insegnanti assieme agli studenti. Come si vede, il canone servirebbe per essere più liberi e consapevoli nelle scelte, per formare una capacità critica, e non certo per vincolare o limitare. In altri termini, io posso ormai dire liberamente se preferisco Dante o Petrarca, ma prima li devo leggere bene; quando ho capito che la carica gnoseologica che ancora conservano è altissima, posso poi giudicare quali opere nel presente ne hanno altrettanta, o almeno una parte.

 

2)      Recentemente la presidente di un’organizzazione no profit, consulente ONU per i diritti umani, ha dichiarato che la Commedia di Dante dovrebbe essere “espunta” dai programmi scolastici o, perlomeno, corredata dei «necessari commenti e chiarimenti» in quanto islamofoba, omofoba, antisemita… Una boutade o un serio problema?

 

Per un lettore consapevole, come quello sopra descritto, si tratterebbe di un’ingenuità evidente. Tuttavia, non sottovaluterei fenomeni di questo tipo, perché si sono già manifestati tante volte nella storia. Quando si prendono brutalmente i significati più superficiali di un testo, senza storicizzare e, soprattutto, senza interpretare le valenze ulteriori, si corre sempre il rischio di chiedere il rogo o, in questo caso, i pannicelli dei commenti politically correct. In un paese in cui la storia è insegnata nelle scuole di ogni ordine e grado, non sarebbe necessario spiegare la differente visione del mondo di un cristiano del Medioevo e di un laico di oggi. Ma così non è, perché la storia spesso viene considerata solo un cumulo di dati esteriori, mentre sarebbe necessario far emergere sempre le componenti etiche e sociali che ci possono aiutare a leggere bene il passato e il presente.

Insomma, nella richiesta di ‘giustificare Dante’ io vedo soprattutto la crisi completa del modello umanistico tradizionale, che è avvenuta nel secondo Novecento, dopo gli estremi della Seconda guerra mondiale, purtroppo perpetrati da popoli ricchi di tradizione umanistica (ripensiamo al Doktor Faustus di Mann), e che ormai è evidente in tutto il mondo. La risposta non può essere solo un sorriso ironico, perché dobbiamo essere consapevoli che molti, di fronte a un testo letterario di una complessità e di una ricchezza cognitiva come il poema di Dante, si limitano a cogliere appunto gli aspetti esteriori e a volte deteriori. Né si può negare che essi facciano parte della cultura dantesca: ho trovato qualche commento che vorrebbe vedere, nella vicinanza a Brunetto Latini, un segno di attenzione di Dante per i ‘diversi’, ma questa è una lettura davvero troppo modernizzante, e che non tiene conto fra l’altro della sottile perfidia nascosta sotto l’apparenza dell’omaggio (non è che fosse proprio necessario metterlo all’Inferno, il maestro Brunetto…). La sfida allora è quella di leggere in modo nuovo il poema anche per queste parti, così come si è già fatto per quelle allegoriche, dottrinali ecc., all’insegna però del riconoscimento della grandezza e del valore, al cui interno i pregiudizi di una fase culturale, che Dante non poteva superare, sono solo una percentuale minima. Altrimenti, dovremmo anche rimproverare a Galileo e Newton di non essere stati Einstein, e di scrivere cose inesatte perché condizionati da fattori esterni dei loro tempi (il rispetto di certi vincoli, le questioni di fede, ecc.).

 

3)      La letteratura sarà presto seppellita dal tecnicismo, dal filologismo, dall’ombelicalismo, come ha sostenuto Tzvetan Todorov in un recente lavoro (La letteratura in pericolo, Milano, Garzanti, 2008)?  

 

Il rischio che corrono sempre gli scrittori è quello di essere schiacciati sulla difensiva, perché osare vuol dire perdere pubblico, consenso, soprattutto favore editoriale (anche di case editrici piccole ma attive). Tuttavia mi pare che l’analisi di Todorov non tenga conto di tante opere di notevole importanza uscite negli ultimi anni: se partiamo da Underworld (1997) di DeLillo e arriviamo a Le Benevole (2006) di Littell e a testi ancora più recenti europei, sudamericani o postcoloniali in genere, direi che non mancano quelli degni di entrare in una lista di capolavori.

Il problema, semmai, è la scarsa capacità di penetrazione presso strati ampi di pubblico. Sappiamo tutti che il medium per eccellenza del secondo Novecento e contemporaneo è quello del ‘visuale’ in tutti i suoi aspetti: il Web ha creato una spinta forte verso l’integrazione di scritto e visivo, ovvero all’iper- o inter-medialità, ma per il momento non ha creato una forma sufficientemente definita di interazione. Quindi, viviamo in una fase in cui tutti noi assorbiamo la maggior parte delle informazioni, e anche la ‘dose’ di artisticità che vogliamo assumere, dalla cultura visuale: basti pensare all’enorme successo, negli ultimi due decenni, delle mostre pittoriche.

La letteratura rimane però, al momento, lo strumento più forte per integrare strati profondi della nostra biologia, quello che ora chiameremmo ‘inconscio cognitivo’ e non più solo freudiano, con la nostra lettura del mondo, personale e consapevole. Lo può fare in tanti modi, con tante gradazioni, ma in ogni caso è ancora capace di generare discorsi carichi di senso. Si tratta di interpretarli e di farli apprezzare: e si torna alle questioni affrontate nella prima risposta.

 

4)      Harold Bloom, nel Canone occidentale, ha scritto che «la nostra comune speranza, tenue ma persistente», è quella «di una qualche versione di sopravvivenza». Questa speranza, anche quando parliamo di letteratura, non è sempre più volentieri spesa, invece che nell’aldilà del giudizio postumo, nell’aldiquà del culturtainment e delle atmosfere festivaliere?

 

La speranza adesso più diffusa è quella di continuare a vivere indefinitamente. Anche se ciascuno di noi sa bene che ciò non è possibile, in realtà dobbiamo supporre che lo sia, per poter trovare un senso a un’esistenza che non voglia ricorrere alla religione o alla superstizione. Per questo, si deve dare il massimo valore a ogni momento della vita: ogni giorno assistiamo a eventi presentati come quelli del secolo, i record, le catastrofi o i successi mai visti, e così via. Basterebbe un minimo di memoria storica e sarebbe difficile che queste forme di mitologizzazione ipocrita venissero accettate, però i mass-media vivono e fanno vivere solo del presente.

È chiaro quindi perché, nel loro piccolo, molti scrittori (non tutti, per fortuna) preferiscono il successo immediato, l’essere sempre à la page cioè su tutte le pagine reali e virtuali, e anzi si trovano in seria difficoltà se il primo libro già li lancia a livelli altissimi, perché fanno poi fatica a replicare. Sono tanti i casi di autori, soprattutto giovani, rimasti per sempre quelli del primo libro, persino quando i successivi erano migliori.

Si tratterebbe anche in questo caso di proporre valide alternative. È inutile pensare che questo sistema cultural-editoriale si automodifichi: bisogna invece difendere valori diversi, non isolatamente, con una voce magari autorevole ma spesso ‘proclamante nel deserto’, bensì con iniziative di ampia portata, che mirino prima di tutto a individuare valori durevoli e il più possibile condivisi. Personalmente, da tempo mi sono impegnato nel premio letterario “Stephen Dedalus”, che ha voluto sin dal 2005 premiare autori e testi ‘di qualità’; dal 2009 è collegato alle “Classifiche” di pordenonelegge, che ogni tre mesi propongono on-line una scelta delle opere migliori uscite in Italia, grazie al voto di oltre duecento Lettori, in genere tra i quaranta e cinquant’anni, o anche più giovani. Non penso che si tratti di un metodo infallibile, tuttavia è un segnale per il pubblico che vuole suggerimenti sulle opere che non si dimenticano appena chiuso il libro o l’ebook.

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