Per Sandro Penna
Viene proposta qui parte dell’introduzione di Alberto Casadei alle poesie di Sandro Penna ora tradotte in rumeno da Smaranda Elian (Humanitas, Bucarest 2013).
Per entrare nel mondo poetico di Sandro Penna (Perugia, 12 giugno 1906 – Roma, 21 gennaio 1977), è opportuno leggere un suo testo ricco di spunti significativi, Avete mai provato…
Avete mai provato, in un’aria serena
e in un paese puro, – ma però non vi date
sentimento di sorta, – a guardar fissamente
d’improvviso un ragazzo? L’innocenza
forse risalirà con la sua bicicletta
la lenta strada, e poi vi sarà tolta
d’un tratto dalla polvere di un camion.
Quando poi schiarirà, cercate ancora
sulla strada, o nel cuore, il vuoto incanto.
Fingerà la natura un suo tramonto.
E tutto vi parrà – ma non vi date
sentimento di sorta – falso e vero.
L’inventare a voi solo conviene. Accanto accanto
a un triste sentimento conosciuto. Ma inventare
che cosa? L’innocenza è una bandiera,
e i rossori si spengono alla mesta
messinscena del vespero la sera.
Amore inventa e rischia. L’inventare
a voi solo conviene. Uno stendardo
può valere una guerra. E in voi balena
l’amore di voi stessi, come una dolce mischia.
Vengono qui messi in scena alcuni dei processi fondamentali che agiscono nella lirica penniana. Il primo è quello del guardare il mondo esterno in tutti i suoi aspetti, ma in particolare quello della bellezza fisica dei fanciulli e degli adolescenti, con un atteggiamento di completa disponibilità. Se vengono eliminati tutti i tratti intellettualistici, che spesso complicano inutilmente la nostra percezione del mondo, allora, per un momento almeno, tutto può apparire puro e innocente, così come il gesto di un ragazzo che si muove su una bicicletta. Evidentemente si è creato, fra l’osservatore e l’osservato, un legame sottile, un’affinità che potrebbe diventare di tipo erotico, ma solo dalla parte del poeta. Subito dopo, però, una nuvola di polvere nasconde l’epifania meravigliosa, e il ragazzo ammirato scompare senza essersi accorto di nulla. A quel punto, al poeta resta un “vuoto incanto”, ossia la consapevolezza che la visione era falsa e vera insieme: da un lato, l’innocenza è un sogno, un’utopia dell’osservatore, e il mondo è solo una messinscena; dall’altro, una visione è avvenuta davvero e ha dato per un attimo la sensazione che la bellezza e la purezza possono coincidere. È quindi possibile “inventare” un rapporto perfetto e privo di vergogne persino nell’ambito dell’amore omosessuale, osteggiato implacabilmente per quasi tutto il periodo in cui visse Penna.
Abbiamo così individuato alcune delle componenti essenziali di questa lirica, tesa in primo luogo a una semplicità e a una chiarezza stilistiche, che costituiscono un equivalente della purezza sempre ricercata a livello tematico. La poesia di Penna punta soprattutto all’immediatezza del rapporto sensazione-parola, alla trasparenza e alla cantabilità. Tuttavia sarebbe sbagliato pensare che a questo si limiti: la nettezza stilistica allontana le impurità ma non le elimina, e anzi si giustifica soprattutto come invenzione di una bellezza che risulta insieme falsa e vera, inventata ed effettiva. In ogni caso, è una bellezza desiderata e mai raggiunta, che la polvere del mondo tende ben presto a nascondere.
Questo tipo di poesia appare sin troppo semplice per non spingere a una lettura in controluce. Avviene lo stesso per uno dei modelli di Penna, Umberto Saba, che fu tra l’altro uno dei suoi primi sostenitori. Nel 1929 l’ancora sconosciuto poeta umbro aveva mandato all’altro un gruppo di testi, sotto lo pseudonimo di Bino Antonione (il cognome della madre), e aveva ricevuto una risposta sostanzialmente positiva, soprattutto riguardo a quelli più brevi. Ma solo tre anni dopo i due poterono incontrarsi di persona, a Roma, grazie alla mediazione dello psicanalista triestino Edoardo Weiss: all’ascolto di Nel fresco orinatoio, alla stazione, Saba riconobbe il suo giovane corrispondente e addirittura rinviò una partenza già programmata per poter rimanere alcuni giorni con questo “turbante poeta”, come telegrafò alla moglie. Al di là dell’aneddotica, questi episodi riflettono una forte consonanza di fondo che si manterrà nel tempo, benché con alcune differenziazioni.
Infatti Penna non si accontentò del solo giudizio di Saba, che rappresentava, negli anni Trenta, un autore stimato ma comunque laterale rispetto ai centri più importanti della poesia italiana, Roma e Firenze. Ecco quindi che, pur accettando consigli e sostegni da parte di Saba, Penna cercò di entrare stabilmente in contatto con questi ambienti, specialmente con quello delle famose “Giubbe rosse” fiorentine. Ebbe così modo di conoscere Eugenio Montale, ancora tra il 1932 e il ’33, e con lui instaurò una corrispondenza epistolare prolungatasi fino al ’38, con momenti di notevole intensità e fervore. Intorno al 1936, tuttavia, iniziò una fase calante, anche in seguito al fallimento del progetto per pubblicare una raccolta di poesie penniane con le edizioni della prestigiosa rivista “Solaria”: Montale aveva sostenuto l’iniziativa, ma forse non ci aveva mai creduto sino in fondo, e alla fine avanzò molte difficoltà, per esempio circa le possibili censure dei componimenti omoerotici.
Il fatto è che Montale si stava sempre più allontanando dal modello della poesia ‘chiara’, cui ancora potevano essere ascritti gli Ossi di seppia, e si avvicinava alla sua stagione più complessa e a tratti oscura, quella delle Occasioni, che appunto giunse a un suo culmine tra il 1937 e il ’38 (periodo cui appartengono molti dei testi più celebri della raccolta poi edita nel 1939). Rispetto a questa nuova poetica, Penna risulta spiazzato: oltretutto, a Roma egli si era avvicinato anche a Ungaretti, capofila della poesia ermetica e vicino al regime fascista, molto distante dalle posizioni montaliane (e sabiane). Quando finalmente uscì la sua prima raccolta di versi (Poesie, 1939), Penna era insomma figlio di molti e di nessun padre, e questo gli impedì ancora a lungo, nonostante i riconoscimenti parziali, di assumere un ruolo davvero significativo nel panorama della lirica italiana. Semmai, prima di lui lo ottennero altri autori spesso ascritti, come il nostro, alla cosiddetta linea ‘semplice’ o ‘antinovecentesca’, per esempio Giorgio Caproni e Attilio Bertolucci.
Per vedere affermarsi largamente l’importanza di Penna bisogna aspettare gli anni Cinquanta, quando uscirono dapprima plaquettes come la celebre Una strana gioia di vivere (1956), e finalmente un’edizione complessiva delle sue Poesie, pubblicata da Garzanti nel 1957. Siamo negli anni in cui esce anche La bufera di Montale, e certo la distanza fra questi poeti appare ormai abissale. Viceversa, le consonanze di Penna con una linea che da Pascoli conduce ai crepuscolari, a Saba e al limite ai poeti neorealisti risultano evidenti soprattutto a Pier Paolo Pasolini, impegnato non solo come poeta che vuole ridare spazio alla corporeità e alla sensualità erotica, ma anche come critico avversario della lirica simbolista ed ermetica, diventata troppo intellettualistica e artificiosa. È proprio Pasolini a segnalare la forza della poesia penniana in una celebre recensione a Una strana gioia di vivere: la sottolineatura, tipica dei primi lettori di Penna, della sua grazia intesa come nitore, manifestata in testi che potevano apparire come ‘fiori senza gambo visibile’ (la formula è di Piero Bigongiari), lascia il posto nella lettura pasoliniana all’individuazione di una “psicologia così profondamente lesa” da generare un continuo bisogno di risarcimento. L’eliminazione della storia e della cronaca, evidente nei testi di Penna, corrisponde quindi a un lavoro di rimozione. A esso si lega il desiderio inconscio di superare i traumi creando un mondo poetico fittizio ma perfetto nella sua purezza: un processo insomma di sublimazione, ben riconoscibile usando categorie psicanalitiche, che non consente di fermarsi all’apparente semplicità stilistica, come avevano fatto i non molti critici che si erano occupati di Penna sino alla metà degli anni Cinquanta, accostandolo spesso alla linea ermetica appunto per la mancanza di riferimenti storici nella sua lirica.
Ma pressappoco nello stesso periodo, e precisamente dal 1958, cominciarono a uscire anche gli interventi di Cesare Garboli, indubbiamente uno dei lettori più vicini al poeta perugino. Vicino innanzitutto per motivi biografici: per molti anni Garboli frequentò Penna a Roma, e tanti ricordi di questa frequentazione trapelano nei suoi scritti, che forniscono particolari spesso disarmanti e teneri ma a volte implicitamente drammatici:
“Oggi [1974] Penna non esce quasi più di casa. Vive assopito in un letto di vimini, soffre di piorrea, lamenta mali incurabili [...]. Moribondo, saprebbe ancora trasmetterti un guizzo di vitalità. Penna è incapace di pensare che il piacere di vivere dipenda da altro che da se stessi. È, in questo, sommamente maschile. Di solito, gli uomini sono adulti nella loro organizzazione virile, e infantili nella loro sostanza profonda. Penna è esattamente il contrario. È adulto nella sua sostanza profonda, e infantile nella sua disorganizzazione, nel suo disadattamento esteriore”.
Partendo da questi referti, Garboli incentra le sue interpretazioni della lirica penniana sulla componente della depressione, riducendo, in confronto a Pasolini, l’importanza della repressione sociale delle propensioni omosessuali. Penna è invece un “grande classico della malattia”, e addirittura è uno dei migliori rappresentanti della tendenza tipica dell’intera lirica italiana del Novecento, che si è espressa all’insegna della “sindrome depressiva”. Ma il poeta perugino vive questa malattia “con uno splendido abbandono da sano”, e insomma la riscatta con la sua capacità di coniare sentenze memorabili sulla vita e sull’amore, che vanno ben al di là della semplice condizione personale: “Ognuno nel suo cuore è un immortale” recita uno dei versi di Penna più rappresentativi.
Con gli interventi di Pasolini e di Garboli, all’analisi della poesia penniana si comincia ad associare stabilmente quella della sua psiche traumatizzata. Dopo l’uscita della nuova edizione delle Poesie (1970), aumentano i contributi che puntano a chiarire aspetti importanti come quello del rapporto di Penna con la realtà storica. È Giacomo Debenedetti a precisare che non di “autoesclusione dal mondo” bensì di “vacanza dalla storia” si deve parlare nel caso di questo poeta, che mira a realizzare una sua propria libertà esistenziale: solo nell’anonimia e nella solitudine possono essere raggiunti gli esiti di sublime distacco tipici della sua lirica.
Su questi temi sono intervenuti, in vari periodi, molti autori amici o affini a Penna, come Dario Bellezza, Giorgio Caproni, Natalia Ginzburg, Giovanni Raboni, Amelia Rosselli e altri. Ma, dopo la morte del poeta perugino (1977), sono stati soprattutto Elio Pecora e Roberto Deidier a consolidare la sua fama, pubblicando materiali inediti, sia testi poetici sia epistolari (come quelli con Saba e con Montale): in particolare Pecora, custode di quei materiali per conto degli eredi, ha anche proposto una biografia penniana uscita nel 1984 con il titolo Una cheta follia e poi aggiornata e integrata. Ma numerosi altri sono stati i lavori importanti, soprattutto a partire dagli anni Novanta: per esempio, nel 1996 Cesare Garboli ha ripreso e sistemato i suoi saggi sotto il titolo di Penna papers (una prima edizione era uscita nel 1984), e ha pubblicato un lungo commento ai rapporti tra due “costellazioni [poetiche] che si fronteggiano”, quella di Penna e quella di Montale, nel volumetto intitolato appunto Penna, Montale e il desiderio.
Sempre più necessaria è sembrata poi una sistemazione critico-filologica dell’opera penniana, come del resto aveva fatto capire lo stesso Garboli pubblicando vari inediti in suo possesso. Da questo punto di vista, oltre ai lavori di Deidier, vanno segnalati i numerosi contributi di Elena Gurrieri riuniti in Quel che resta del sogno (2010), dove vengono proposti sondaggi sul primo e sull’ultimo Penna, nuovi esami della produzione critica su questo autore, nonché interpretazioni che, fra l’altro, mirano a spostare gli accenti riguardo alla sua propensione a ritagliarsi uno spazio di libertà e di autonomia dalla storia: si deve invece tener conto di una non voluta marginalizzazione, che trapela da molti testi penniani nient’affatto euforici e vitalistici.
Siamo così giunti all’oggi e alla necessità di proporre almeno una sintesi provvisoria riguardo a queste diverse posizioni, per tornare poi a un’analisi più ravvicinata dei testi penniani. Intanto, si può sostenere che molte affermazioni presentate come contrapposte costituiscono invece due facce di una stessa medaglia: la depressione e le pulsioni erotiche di tipo omosessuale (o, addirittura, pedofile) possono convivere in un quadro psicologico nel quale il desiderio di vicinanza e insieme quello di autonomia si alternano senza conflitti. L’uso esplicito o implicito di categorie psicanalitiche, basate sui contrasti e sui conflitti aperti, ha forse impedito di vedere quello che ora le scienze cognitive ci cominciano a dimostrare: l’inconscio è un territorio in cui i traumi e i contrasti si fondono con molti altri aspetti dell’esperienza vitale di ogni essere umano, che comunque devono essere tutti soggetti a una precisa rielaborazione stilistica per raggiungere esiti artistici.
In particolare, nel caso di Penna resta vero che la sua propensione lirica va verso la purificazione e l’assolutezza: il suo è il più ‘rigoroso monolinguismo’ (P.V. Mengaldo) del nostro Novecento, e la selezione lessicale si accompagna alla semplificazione sintattica e alla facilità metrico-rimica. In altre parole, anche quando i temi risultano potenzialmente negativi, la cifra stilistica di Penna si estrinseca in forme cristalline ed essenziali: «Il mare è tutto azzurro./ Il mare è tutto calmo./ Nel cuore è quasi un urlo/ di gioia. E tutto è calmo». La sua è una scrittura che conferisce un eccezionale rilievo alla creaturalità esistenziale perché vuole esprimere la felicità del vivere attraverso l’azione diretta della poesia: la vita è un bene, nonostante tutto, se può essere cantata in liriche che, appunto, vivono della loro intensità appagante, del loro essere ispirate quasi da un dio (“Ricordati di me dio dell’amore”), come dono da accogliere e ritrasmettere.
La storia certo non è del tutto eliminata, ma non è possibile una referenzialità diretta ai suoi eventi: conta la partecipazione al vivere collettivo, ma in maniera mediata, quella tipica di chi non agisce e, piuttosto, subisce e ripensa. Se la storia è in primo luogo azione, la poesia di Penna è passione, in tutti i sensi che questa parola può assumere. I suoi esiti più alti vengono raggiunti quando il desiderio, la meraviglia, la riflessione si fondono in aforismi efficacissimi: i migliori, spesso, sono imperniati su semplici figure retoriche, come il quasi-ossimoro che campeggia sin dal titolo “una strana gioia di vivere” (ma si ricordi anche il “croce e delizia”, ricavato dalla Traviata di Giuseppe Verdi per una raccolta del 1958). In ultima istanza, emerge la quintessenza di un processo che potremmo definire, prendendo a prestito una definizione coniata da Jorge L. Borges per Walt Whitman, “volontà di felicità”: questo processo implica un ‘corteggiamento della realtà’ (C. Garboli) che ne mostra gli aspetti più belli e graditi per farsi gradire e accettare. Il cantore della gioia vitale, sia pure strana e a volte oscurata, si aspetta di ricevere gioia dal suo canto.
In generale, la creatività di Penna scatta quando la sua fantasia si cristallizza in un’immagine nitida e di per sé evocativa: che sia presente o meno un aspetto erotico, l’essenziale è che sia ricostruibile una scena perfettamente desiderabile, con colori accesi, gesti spontanei e puri (persino quelli legati alle più basse funzioni corporee), fisicità sublimate. Costruito questo sfondo, l’io dovrebbe entrarvi a pieno titolo, ma invece rimane quasi sempre a svolgere il ruolo di spettatore: l’azione continuativa, ossia la storia, manca perché inevitabilmente turberebbe la perfezione dell’insieme, che è ciò che davvero conta per il poeta. La sua soggettività esiste solo in rapporto a quello che vede, o s’inventa di aver visto, e il suo compito è quello di descrivere la visione e semmai di inserirla in un contesto che ne rivela le implicazioni etiche e a volte sapienziali (di una “sapienza oracolare”, direbbe ancora Garboli). Per usare i versi di Penna:
Sempre affacciato a una finestra io sono,
io della vita tanto innamorato.
Unir parole ad uomini fu il dono
breve e discreto che il cielo mi ha dato.
E si considerino anche i seguenti, ancora più celebri:
Amavo ogni cosa nel mondo. E non avevo
che il mio bianco taccuino sotto il sole.
Che poi la spinta alla poesia nasca come stato euforico momentaneo, rispetto a una condizione depressiva costante, è plausibile in ambito biografico ma non dimostrabile a livello testuale: resta il fatto che l’obiettivo di Penna è quello di garantire comunque che, con i versi, si può esprimere una strana gioia di vivere, che la loro “grazia” può diventare “fulminante” per il lettore, e insomma che la poesia può sconfiggere con la sua immediatezza ogni negatività dell’esistenza.
La prima garanzia stilistica della piena felicità del momento poetico sta nella forma cantabile: il suo nucleo è quello della quartina di versi spesso brevi (settenari), come nelle canzonette settecentesche, e a rime facili:
L’aria di primavera
invade la città.
Ai fanciulli la sera
cresce un poco l’età.
Per testi così semplici è stato spesso richiamato il modello di Metastasio, ma ancora una volta la mediazione di Saba risulta fondamentale: era stato il poeta triestino a introdurre temi impegnativi e a volte drammatici in forme leggerissime. Ma Saba adottava quasi sempre una componente narrativa, viceversa pressoché assente in Penna, che semmai spinge le sue quartine verso la riflessione etica:
Felice chi è diverso
essendo egli diverso.
Ma guai a chi è diverso
essendo egli comune
Si coglie qui una rivendicazione del proprio comportamento esistenziale, l’avere accettato di essere un ‘diverso’ per potersi esprimere interamente e non per una semplice volontà di farsi notare. In una sequenza semplicissima, giocata su poche parole e con minime variazioni, viene distillata la valutazione della vita propria e di quella di tanti altri, solo in apparenza simili al poeta. Quelli che potremmo considerare gli haiku di Penna contengono verità drammatiche, che però sono svelate, almeno per buona parte della sua opera, con la stessa levità delle visioni più gioiose.
È vero tuttavia che, soprattutto nell’ultima raccolta edita vivente l’autore, Stranezze (1976), e poi ancora in Il viaggiatore insonne (1977), Confuso sogno (1980) e nelle altre poesie postume, il processo primario della sublimazione non sembra reggere sempre di fronte all’affacciarsi della prospettiva finale del disfacimento di tutto quanto era considerato eternamente bello – la giovinezza, il desiderio, la vitalità in tutte le sue sfaccettature. È difficile valutare quando effettivamente queste poesie sono state scritte, perché manca tuttora un’edizione critica affidabile dei testi penniani: ma siamo sicuri che il poeta tratteneva molti suoi componimenti parecchi anni prima di pubblicarli, e quindi almeno alcuni di essi potrebbero appartenere a stagioni diverse della vita di Penna. Se ci manteniamo ai testi, comunque, dobbiamo riscontrare che nella terzultima lirica di Stranezze emerge un dubbio inquietante sulla natura degli amori del poeta:
Il mio cuore
cercava la vita e l’amore:
(l’amor di un fanciullo di dodici anni?).
Nella domanda stupita rivolta a se stesso si profila una colpa mai rivelata così esplicitamente, quella di una possibile pedofilia che si celava in molti dei testi penniani dedicati a ragazzi o fanciulli. In apparenza questo spiega perché l’amore di Penna si configura come desiderio senza contatto, ossia erotismo asessuato. Eppure anche in questi versi si manifesta la spinta che rendeva ‘pura’ persino questa pulsione inevitabilmente condannata dall’etica comune: tutta la poesia di Penna puntava in primo luogo alla ricerca della vita e dell’amore, e perciò poteva superare ogni tipo di vincolo, arrivando a esprimere la diversità di un autentico diverso. I ripensamenti finali non bastano a cancellare la forza assoluta delle visioni dettate dal desiderio: i fanciulli, prima che oggetto di piacere, sono pueri divini, dèi venuti in terra, giovanissimi e immacolati (e per questo spesso androgini, ossia di una sessualità indifferenziata).
Non contano quindi gli scrupoli morali per chi ha voluto praticare la sua diversità. Semmai, la preoccupazione del poeta può essere quella di rimanere inascoltato:
Era la mia città, la città vuota
all’alba, piena di un mio desiderio.
Ma il mio canto d’amore, il mio più vero
era per gli altri una canzone ignota.
Al fondo, la poesia di Penna è appunto un tentativo di far comprendere anche agli altri i motivi profondi di un canto alla vita e all’amore nonostante tutto. Non a caso tra i suoi componimenti più celebri si contano ancora adesso quello iniziale e quello finale delle Poesie del 1939. Il primo è La vita… è ricordarsi di un risveglio, due strofe simmetriche che manifestano come la malinconia del vuoto esistenziale può essere superata da una “liberazione” più potente e insieme delicata, che ridona colore a ogni cosa:
La vita… è ricordarsi di un risvegliotriste in un treno all’alba: aver vedutofuori la luce incerta: aver sentitonel corpo rotto la malinconiavergine e aspra dell’aria pungente.
Ma ricordarsi la liberazione improvvisa è più dolce: a me vicino un marinaio giovane: l’azzurro e il bianco della sua divisa, e fuori un mare tutto fresco di colore. |
Il componimento conclusivo è un semplice distico:
Io vivere vorrei addormentato
entro il dolce rumore della vita.
Un distico che chiude ad anello, sulla parola-chiave vita, l’intera compagine della prima raccolta, ma insieme espone la condizione esistenziale che il poeta vorrebbe assumere: rimanere addormentato, e quindi non agire, ma sognare, forse, tutto ciò che costituisce il positivo del vivere, il suo “dolce rumore”. In questo ulteriore quasi-ossimoro si coglie la cifra più autentica di Penna, il suo sensualismo sublimato e la sua gioia strana ma essenziale. Illuminare gli aspetti prettamente biografici di questa situazione è stato e sarà un compito importante della critica, magari ricorrendo anche ai racconti e ricordi riuniti in Un po’ di febbre (1973). Fra l’altro, questa raccolta indica molte possibili piste per le ricerche a venire: da quella delle letture di Penna, che comprendono tutti i maggiori poeti italiani dell’Otto e Novecento, nonché alcuni stranieri apparentemente molto lontani dai suoi ideali, come Hölderlin e Rimbaud; a quella dei suoi interessi per l’arte, poi lungamente coltivati (anche per l’attività di compravendita di quadri), e che per esempio vanno a toccare i possibili rapporti con un pittore come Filippo De Pisis, legato a temi onnipresenti nei testi penniani, come quello dei fanciulli e degli adolescenti.
Ma forse ancora più importante è, per i lettori, il lasciarsi coinvolgere e convincere da versi che vogliono rendere tutti consapevoli della singolare e quasi incredibile felicità implicita nel nostro vivere, sino a concentrarsi in aforismi che rimangono impressi per sempre:
Forse la giovinezza è solo questo
perenne amare i sensi e non pentirsi.