Sul futuro della letteratura
Presentiamo l’inizio di un contributo di Alberto Casadei di prossima pubblicazione in un volume dedicato al futuro della letteratura.
La letteratura non depotenziata
Nel 1992, Timothy J. Reiss nel suo The Meaning of Literature proponeva di far risalire l’idea attuale di letteratura alla metà del XVI secolo, quando i discorsi religiosi e teologici di spiegazione del mondo cominciavano a essere sostituiti da quelli politici, nel filone machiavelliano, o saggistici, come nel caso di Montaigne, e poi da quelli più propriamente filosofici e scientifici. Le opere letterarie, soprattutto a partire da Cervantes e Shakespeare (ma si potrebbero aggiungere facilmente molti altri, come John Donne o Lope de Vega), cominciano a fornire una visione autonoma e credibile della realtà: essa non può ancora rivoluzionare i limiti imposti dalle varie forme di classicismo, ma di fatto li supera in più modi, spesso dotando di nuove valenze cognitive i campi metaforici (pensiamo a quello del sogno) e le azioni dei personaggi, dotati di una fisionomia sempre più complessa nell’ambito dei generi in ascesa, il proto-novel e il teatro. Potremmo anche sostenere che è da questa fase che i testi più alti invocano un’interpretazione specifica, mentre sino ad allora era sufficiente un’esegesi, che certo poteva trovarsi di fronte a passi allegorici anche complessi, ma tendeva a ricondurli a schemi noti: il caso dell’apocrifa Epistola a Cangrande è da questo punto di vista esemplare. La letteratura moderna non accettava le spiegazioni del mondo precostituite e cominciava a sondare due ambiti poi sempre più fondamentali nel suo spazio creativo, quello della multiformità del reale e quello della varietà e variabilità dei sentimenti.
Vent’anni dopo, abbiamo ormai introiettato una lunga serie di analisi allarmate o catastrofiche sullo stato attuale e sui destini di quel settore della cultura umana che da circa cinque secoli siamo abituati a chiamare letteratura. Dall’autoesaltazione e dall’apertura all’intero scibile umano, gli scrittori sarebbero passati a una tendenza autodistruttiva, ben forte a partire dalla fine del XIX secolo, secondo le ipotesi di William Marx, che ha poi anche indagato gli aspetti socialmente stravaganti della figura del letterato (L’adieu à la littérature, 2005; Vie du lettré, 2009). E se uno studioso di tanta esperienza e con tanti metodi quale Tzevetan Todorov ha indicato senza mezzi termini nel nostro sistema di diffusione superficiale della cultura un pericolo per la letteratura e per i suoi valori più forti, molti altri (da Segre a Compagnon) hanno visto nella crisi della critica e delle teorie letterarie il segno più ampio di una decadenza complessiva del sistema simbolico che aveva al suo centro l’opera scritta con intenti artistici e conoscitivi.
Tra questi poli, che potremmo definire quello dell’onnipotenzialità e quello del depotenziamento della letteratura, si deve collocare ogni discorso che oggi voglia indagare sulla sua condizione e sui suoi possibili destini. Molto spesso si adotta in questi casi un paradigma interpretativo di tipo storico-evolutivo, che porta a considerare il presente o come un miglioramento o, più spesso, come una degenerazione del passato. Sulle sue radici profonde è forse inutile tornare, dopo le tante riflessioni sui modelli progressisti o apocalittici, sul processo di secolarizzazione et cetera multa; tuttavia questo paradigma, ben applicabile in ambiti come quello tecnico-scientifico, quello economico e altri, è risultato poco convincente per le arti, essendo in effetti difficile riconoscere un progresso per esempio da Omero a Joyce: le arti accettano giudizi di valore transitòri (le mode dovute al prestigio di singoli o di gruppi) oppure perenni (quelli sanciti con la categoria del ‘classico’, e messi alla prova nelle storie letterarie, grazie anche al confronto fra i maggiori e i minori), ma non si può considerare superiore un grande autore del periodo moderno rispetto a uno dell’antichità, o viceversa, solo per la loro cronologia relativa. Risulta quindi difficile valutare lo stato complessivo della letteratura di un periodo basandosi sui meri dati storico-evolutivi.
Dobbiamo allora necessariamente adottare una griglia interpretativa molto meno rigida, di tipo scalare e non solo oppositiva, per riuscire a leggere la partita doppia che riguarda oggi, come sempre, la letteratura: ciò che essa sta perdendo rispetto alle potenzialità di un tempo e ciò che invece può essere o diventare in questa sua nuova metamorfosi. Se infatti alcuni recenti e importanti lavori teorico-storici, come quelli di Guido Mazzoni (2005 e 2011), hanno posto in rilievo alcuni nuclei fondativi della poesia e della narrativa postromantiche, a cominciare dalla capacità di rappresentare e storicizzare l’individuo umano in tutte le sue componenti, restano da esaminare aspetti di ancora più lunga durata, quelli appunto che la letteratura ha veicolato sin dalle sue origini, e che toccano aspetti biologico-cognitivi oltre che effettivamente storici. In questa prospettiva, categorie come quelle di crisi, trionfo o apocalisse risultano fuorvianti perché viziate da una valutazione implicita o comunque non formalizzata, mentre invece è necessario cogliere somiglianze e differenze senza presupporre che esse siano definitive e senza dimenticare mai che, in un sistema fluido ma coerente, l’avvento di una novità significativa costringe a riconfigurare anche il passato, come aveva già intuito Eliot proprio a proposito delle opere letterarie moderne che spingono a rileggere quelle precedenti da un’angolatura inedita.