Dante oggi
Il libro di Alberto Casadei Dante oltre la “Commedia” (editore il Mulino, 2013) propone alcune linee interpretative inedite nell’ambito degli studi danteschi. Qui di seguito proponiamo la Premessa.
Scopo fondamentale di questo lavoro è quello di tornare a unire strettamente l’esame storico-filologico e lo sforzo critico-interpretativo nell’analisi di un’opera dalla lunghissima tradizione esegetica quale il poema di Dante. Come si vedrà, già il titolo Commedia, o più propriamente Comedìa, va sottoposto a una minuziosa disamina, avendo cura di distinguere fra quello che i testi autenticamente danteschi ci garantiscono, e quanto invece è frutto di un’immediata e ormai secolare attività di commento, più o meno informato e autorevole. Il ripartire ogni volta dai dati di fatto, senza pregiudizi, consentirà di proporre le ipotesi con il maggior grado di probabilità: a questo si deve puntare, cercando sempre di intersecare indizi esterni e interni, evidenze filologiche e risultanze della storia della tradizione, e seguendo un metodo che permetta di individuare punti decisivi per delineare un quadro d’insieme.
Una corretta ricostruzione degli ‘scenari possibili’, solo nei casi più fortunati schematizzabili in diagrammi, deve condurre, per esempio, a indicare dove e quando è più probabile che sia stato diffuso il Paradiso, condizione prioritaria per poter riflettere adeguatamente sull’Epistola a Cangrande ̶ che peraltro, a un esame mirato, mostra i suoi limiti persino nell’esegesi dei versi incipitari della terza cantica; oppure a controllare esattamente quando e soprattutto perché Dante avrebbe dovuto autocitarsi esplicitamente nell’ambito di un trattato come la Monarchia, che parla della realtà storica (con discreta approssimazione, quella tra il 1311 e il ’13) sempre in modi indiretti.
Ma la verifica di dati fattuali e l’interpretazione di indizi significativi, per esempio la singolare apostrofe a Giovanni XXII nel finale di Pd XVIII, non servono solo a redigere tabelle cronologiche o a valutare l’attendibilità di notizie spesso accettate senza i dovuti riscontri (è il caso di alcune – certo non tutte – fra quelle fornite da Boccaccio, magari a sua volta troppo accondiscendente riguardo a documenti poco affidabili, come l’epistola di Ylarus o Ilaro). Il passo successivo, dopo la formulazione delle ipotesi con il maggior grado di plausibilità in base a tutti i dati disponibili, è quello di rileggere le tradizioni esegetiche che si sono affermate almeno nella fase ‘moderna’ della critica dantesca, in specie quella iniziatasi con il Novecento delle Avanguardie e di Eliot, poi di Auerbach, Contini, Singleton e tanti altri autorevolissimi interpreti. Tutti siamo convinti che i debiti nei loro confronti saranno duraturi, ma questo non può impedire di investigare il poema sacro secondo nuove angolature.
Innanzitutto, adottando una prospettiva interna e sincronica, dobbiamo riconsiderare il fatto che il ‘comico’ non coincide con il sermo humilis cristiano, e non può nemmeno comprendere né per argomento, né per scelte stilistiche l’impresa sublime di rappresentare poeticamente l’Empireo e la realtà trinitaria. Inoltre, per Dante, il poema non deve essere considerato meramente fittizio (pur essendo letterariamente elaborato), perché la sua ispirazione si presenta come divina grazie al favore accordato dallo Spirito santo, alla maniera dei grandi profeti: la nuova opera reclama lo stesso statuto ontologico di un libro biblico. Le scelte attuate per raggiungere questo obiettivo superano la rigida separazione degli stili sintetizzata nella Rota Vergilii; tuttavia la novità non sta nello scegliere di parlare di temi altissimi in modo umile, possibilità lecita a qualunque autore cristiano, né nell’addensarsi locale di forzature riconducibili a una forma di espressionismo, categoria quanto mai eterogenea e sicuramente bisognosa di una messa a punto.
Se il poema è stato in grado, nei secoli, di superare le censure e le limitazioni di tipo classicistico, ciò è avvenuto in primo luogo grazie all’eccezionale concretezza derivata dalla fusione di realtà storica e di conoscenze ampie e trasversali nei campi della filosofia e delle scienze medievali – con un atteggiamento, come è stato detto, di amante del sapere in sé: e basti ricordare, pensando all’avvio del Convivio, che «la scienza è ultima perfezione de la nostra anima, ne la quale sta la nostra ultima felicitade» e perciò «tutti naturalmente al suo desiderio semo subietti». A un livello più profondo, nel corso del Novecento e ancora negli studi attuali è stata sempre meglio individuata la propensione di Dante a una specifica ‘gnoseologia poetica’, caratterizzata da un’energia e una densità che passano, certo, attraverso l’elaborazione linguistica, e tuttavia in essa non si esauriscono.
Con il Paradiso, in effetti, diventa determinante lo sforzo di superare le divisioni stilistiche consuete per ottenere una teodìa adeguata alla rappresentazione di un mondo immateriale, di solito immaginato solo in base a presupposti teologici necessariamente astratti o a racconti visionari piuttosto semplici. Lasciandosi alle spalle le diatribe sui comica verba, Dante vuole scrivere una poesia che mira a una definitezza assoluta: per questo, un tratto dominante dell’ultima cantica è la condensazione dei passaggi logici e dei nessi narrativi, votata a una finalità cognitiva sempre più elevata. Lontana dall’eversione espressionista, questa elaborazione stilistica si attua su un piano suo proprio, al di fuori di quelli del comico e del tragico: specifici processi analogici vengono impiegati per riuscire a rappresentare quanto poteva rimanere mera intuizione dei mistici, ossia i ‘sopra-mondi’, i circumflua corpora in tutti i loro aspetti, e da ultimo l’immedesimazione dell’anima in Dio. Questo mondo altro può risultare talmente ardito da interessare persino i fisici o i filosofi contemporanei; tuttavia, la sua caratteristica specifica resta la caratura stilistica, che si è modificata passando dal disordine infernale all’ordine armonico dell’Empireo. Nella lunga durata, dello stile di Dante contano insomma le valenze più autenticamente conoscitive che hanno permesso di far attribuire al poema lo status di summa: tali valenze oggi possono essere meglio sondate, per esempio grazie agli strumenti della poetica e della stilistica cognitive (per un quadro di riferimento, si rinvia a Casadei 2009 e 2011).
A questo proposito è opportuna una precisazione. Passata la fase postmodernista, dobbiamo riabituarci a valutare i classici esaminandone, nel nostro presente e sulla scorta della ricezione storica, l’intrinseca costituzione, cercando di comprendere la loro capacità di cogliere aspetti costanti dell’esperienza umana, capacità irriducibile alla semplice addizione di quanto già noto, al momento della loro scrittura, su un piano scientifico-filosofico. Grazie alla forza della loro elaborazione stilistica, i classici risultano reinterpretabili nel tempo, pur partendo spesso da microcosmi, come quello delle lotte politiche nella Firenze dell’inizio del Trecento, peraltro proiettate sullo sfondo dell’aldilà (ma le vicende possono essere invece quelle del tutto fittizie di una corte danese o di un impiegato praghese). Dante ha mirato a potenziare sempre più le valenze gnoseologiche della sua poesia, e sebbene la sua non sia poesia moderna, la densità e la varietà stilistiche e concettuali, ben distinguibili da una caotica propensione alla mescidanza, ce la rendono vicina, perché quella densità e quella varietà risultano adesso caratteristiche perenni della nostra attività cognitiva conscia e inconscia.
L’intero ‘sistema’ di Dante conduce verso un ordine, puntando al divino attraverso un itinerario conoscitivo pienamente umano: l’eccezionalità dipende dall’inesauribile inventio messa in atto per arrivare a questo risultato. La necessità di una chiusura, più precisamente di una conclusione immodificabile, è massima e addirittura polare rispetto a quella dell’opera aperta per eccellenza, Finnegans Wake. Ciononostante, per Joyce, come per tanti altri narratori-ricostruttori del mondo nel XX secolo, Dante è stato un (anti)modello necessario: ora però i motivi della sua fortuna persino transculturale sono altri, e si cercherà di esaminarli. Di sicuro, l’Aldilà dantesco è interpretabile come uno spazio in cui la tensione gnoseologica a comprendere le leggi divine permea sia il racconto del viaggio di un preciso essere umano, eletto come Enea e Paolo, sia la resa stilistica che il nuovo Poeta vuole ottenere: non a caso l’ultimo paragone che lo riguarda è quello con il «geomètra che tutto s’affige / per misurar lo cerchio» (Pd XXXIII 133-134). Per l’auctor-agens, l’immedesimazione in Dio, almeno nell’attimo del fulgore che appaga il desiderio della mente, sancisce il ritrovamento del principio; per il lettore, la certificazione dell’esito genera la fiducia che, grazie alla poiesis, un ordine è stato alla fine raggiunto. E ciò conferisce uno sbocco e una requie all’energia che le immagini dantesche continuano a suscitare, partendo dalla plasticità contorta delle figure infernali per arrivare alla purezza gloriosa della Trinità cristiana.