Letteratura e nazionalità: 2
Questo articolo prosegue la riflessione iniziata nel mese di novembre sugli aspetti della globalizzazione e della nazionalità nella letteratura contemporanea.
Benché ovvia, si deve ribadire la constatazione di quanto sia stata importante la funzione della letteratura come elemento di coesione nazionale nella storia italiana così come in quella di quasi tutti i Paesi occidentali. Il modello di De Sanctis è stato, alla lunga, quello decisivo, perché fondava la valutazione dei nostri capolavori su due variabili interdipendenti: il risultato estetico e la valenza morale e civile. Ciò ha consentito un orientamento netto nell’interpretazione della nostra letteratura, poi variamente ripreso e giustificato in ambito critico nonché in quello politico (si pensi a Croce e Gramsci interpreti di De Sanctis), ma ha anche giustificato una precisa valutazione del presente: e da questa angolatura le scelte cambiano non poco. Infatti, la nuova letteratura italiana, ovvero la letteratura della nuova e finalmente unita nazione italiana, doveva essere in grado di leggere l’italianità a partire da una lunghissima tradizione, latina e volgare, per arrivare a una nuova classicità, incarnata dal Vate Carducci, al quale non a caso Croce dedicò il saggio di apertura della sua rivista “La Critica” nel gennaio del 1903; poteva però anche trovare la sua forza nella lettura di una tendenza più ampia, almeno europea, verso la filosofia e la scienza, e in questa direzione puntano coloro che per l’appunto non consideravano il sistema letterario italiano totalmente svincolato dalle macrotendenze internazionali: fra questi dobbiamo collocare anche il De Sanctis dei Saggi critici, da leggere assieme alla Storia della letteratura italiana, per valutare appieno, per esempio, la sua interpretazione di Manzoni e di Leopardi, ovvero degli autori che sono stati più penalizzati dal sistema dicotomico crociano, e che invece risultano adesso decisivi per lo sviluppo della nostra letteratura nella direzione di una declinazione originale e nazional-specifica dei grandi temi in gioco fra classicismo e romanticismo. In questa prospettiva, l’auspicio finale della Storia è appunto quello che la nuova letteratura realizzi sé stessa e insieme la nuova nazione, essendo entrambe ancora esteriori e retoriche, non dotate di un’intimità propria: “L’Italia è stata finora avviluppata come di una sfera brillante, la sfera della libertà e della nazionalità, e ne è nata una filosofia e una letteratura, la quale ha la sua leva fuori di lei, ancorché intorno a lei. Ora si dee guardare in seno, dee cercare se stessa: la sfera dee svilupparsi e concretarsi come sua vita interiore” (ed. Croce 1912, rist. Laterza 1964, II, p. 423).
Oggi è possibile criticare il modello desanctisiano per tutto quello che ha portato a sacrificare, per esempio la fase del classicismo fondativo, addirittura delle grandi culture europee d’Ancien Régime, come ha sottolineato soprattutto Amedeo Quondam; oppure la forte limitazione delle varietà regionali, in una rinnovata connessione tra geografia e storia che da Carlo Dionisotti porta (almeno in teoria) alla Letteratura italiana diretta da Alberto Asor Rosa. Tuttavia, mi sembra evidente che la forza euristica di quel modello resta ancora intatta se si deve leggere la letteratura nata in territorio italiano, nelle condizioni politiche storicamente succedutesi, cercandone non solo i princìpi di aggregazione ma anche quelli di tensione da e verso l’esterno. Per esempio, sappiamo che il poema di Dante, per lunga tradizione intitolato Commedia o Comedìa, è il testo che più incarna tutte le contraddizioni italiane tra particolarismi eccessivi, spesso autodistruttivi, e realizzazioni artistiche autonome e geniali: ma non è stato certo quello più facilmente apprezzabile fuori d’Italia (e per molti secoli nemmeno in Italia), anche perché frutto a suo modo unico, nato molto più in rapporto con le auctoritates bibliche e latine che non con le visioni o i poemi allegorici coevi e circolanti fra i vari volgari europei. Viceversa, un intellettuale come Petrarca, votato alla selezione e quindi, almeno in astratto, all’esportabilità stilistica ha costituito un modello forte per l’umanesimo e per la lirica europei, ma ha inciso relativamente poco, nonostante alcune recenti rivalutazioni, sul piano dell’autoconsapevolezza della nazione italiana. Tutto sommato, la sintesi perfetta tra interpretazione, al ribasso, dell’ethos del nostro popolo e capacità di veicolare un modello di lunga durata in ambito europeo è toccata al Boccaccio del Decameron: che però, sebbene si possa fregiare del titolo di prima ‘commedia all’italiana’ e di raccolta organizzata con un’organizzazione tematica, resta non poco al di sotto dei capolavori delle altre due ben più meritate corone fiorentine.
I meriti e i demeriti delle nostre e in genere delle opere di ogni letteratura non dipendono quindi né dalla sola specificità nazionale né dal loro successo internazionale, ma certo è importante cogliere gli aspetti che permettono di interpretare in senso dinamico quelli che altrimenti sarebbero meri dati fattuali (i contenuti e i temi nazionali se non nazionalistici, i modelli e i generi diffusi internazionalmente, il successo o l’insuccesso a ogni livello ecc.). E noto qui che questa situazione non si modifica sostituendo gli aggettivi ‘internazionale’ o ‘globale’ a ‘nazionale’ o ‘locale’, sull’onda di eventi sociologici, politici e culturali che vengono ricavati da statistiche o da indagine sul presente. Molto più fruttuosa mi pare sia l’idea desanctisiana di un processo che si va a realizzare, localmente, attraverso forze attive in ogni momento storico, proprio quelle che spesso siamo portati a sintetizzare, di necessità e imperfettamente, nei tanto vituperati ma tutto sommato non inutili –ismi. Il problema è se si deve o meno conservare una stazione di partenza che, ancora adesso, riguarda in primis la ricostruzione della genesi storico-biografica di un’opera, nonché la ricezione di lunga durata nella sua specifica cultura, oppure questi siano fattori accessòri e addirittura inverificabili nell’epoca del multiculturalismo e dello spaesamento.
Come postilla, aggiungo che, nel settore dell’italianistica, sono ormai numerose le analisi che contribuiscono a collocare la storia della formazione nazionale in un ambito che tiene conto della nostra letteratura e insieme di quelle europee. Ricordo, a titolo di esempio, un contributo di Arnaldo Di Benedetto sui libri che hanno fatto (o anche disfatto) gli Italiani, che tiene conto del fondamentale assunto di Ernest Renan circa la volontà di essere nazione e individua numerose contraddizioni nel concetto di italianità rispetto a quelli corrispondenti in Europa. Dal canto suo, Pier Vincenzo Mengaldo ha mirato a individuare punti di identità della poesia italiana del Novecento, pur tenendo conto delle continue interazioni con altre tradizioni forti (ma non dominanti, come nel caso delle narrative). Si sono anche moltiplicati i tentativi volti a includere le letterature degli italiani emigrati in una storia unitaria assieme a quella scritta in patria: gli scritti di specialisti come Sebastiano Martelli sono stati ripresi in quelli di comparatisti come Franca Sinopoli, che ha di recente sostenuto la necessità di un concetto transnazionale delle scritture letterarie italiane. Segni tutti, al di là della maggiore o minore efficacia degli esiti, di una ricerca in corso per trovare nuovi equilibri anche nelle sintesi storico-letterarie nostrane.