Letteratura e nazionalità: 1
Si propone qui una prima parte di un intervento letto a Torino durante il recente incontro su Letteratura e nazionalità: una equivalenza in discussione.
1. Lo studio del rapporto fra letteratura e nazionalità impone preliminarmente una serie molto ampia di distinzioni, allo scopo di selezionare le coordinate più precise possibili per situare e tarare l’analisi. Già l’uso di concetti pluristratificati come ‘letteratura’ e ‘nazione’ impone il metodo del distingue frequenter per evitare sovrapposizioni indebite, per esempio fra l’idea di nazione (e di Stato) che si poteva avere dopo l’evento-spartiacque della Rivoluzione francese e sino alle guerre mondiali, e quella attuale, ben più legata, nel nostro ambito Occidentale, a un confronto di sistemi economico-culturali che non a un’ideale determinazione del destino di un popolo. Di conseguenza la letteratura ha perso, sempre nello stesso ambito, il compito di indicare e immortalare quel destino, e al massimo può conservare quello di rivelare i limiti e le colpe di una nazione, con un’attitudine politico-satirica che è spesso una delle poche caratteristiche oggi proprie e localizzate.
Tuttavia questi concetti, a mio parere, per ora non sono talmente elastici da consentire il loro annullamento in una supercategoria come quella di ‘globalizzazione’ (o altre equivalenti) quasi che gli elementi per così dire nazional-specifici siano diventati insignificanti. Per usare categorie della fisica dei sistemi complessi, direi che i rapporti attuali fra letteratura e nazionalità sono definibili come stati instabili ma non caotici: esistono cioè elementi di coesione locale, che consentono di evidenziare alcuni motivi per cui un esame approfondito dei testi collocati nel loro contesti di partenza non risulta puramente documentario. Esistono però anche elementi di coesione a distanza, secondo tipologie diverse, superficiali (generi e temi transnazionali) o profonde (caratteri costanti, di tipo cognitivo, adattati e rielaborati nelle diverse culture).
Anche se non mi sarà possibile procedere a una storicizzazione continua, vorrei notare che, nel nostro orizzonte culturale, è impossibile non tener conto dei presupposti di tipo politico che sono stati alla base dei concetti di letteratura nazionale e di Weltliteratur nell’Ottocento: le implicazioni socio-economiche persino dei canoni in apparenza più oggettivi proposti in ambito europeo e poi statunitense sono state fatte emergere in particolare da Edward W. Said, al quale farò riferimento nel mio discorso molto più che non a concetti derivati da interpretazioni pericolosamente astratte, come quelle di Deleuze e Guattari, o viceversa sin troppo concretamente giustizialiste, come molte di quelle emerse da vari settori dei Cultural Studies. Rispetto a Said, tuttavia, io ritengo non solo che i valori umanistici occidentali possano essere salvaguardati, purché privati dell’aura di superiorità indiscutibile con cui per lungo tempo sono stati avvolti, ma anche che solo all’interno di un sistema che mette a confronto gli esiti considerati più rappresentativi in culture diverse si possa arrivare a un vero avanzamento sul piano della comprensione profonda di quelle stesse culture, per quanto lontane esse siano. Si tratta quindi di comprendere che ‘letteratura’ e ‘nazione’ sono concetti che si modificano continuamente, pure nel cuore della vecchia Europa (basti pensare al caso della Germania prima e dopo l’unificazione), e che la loro messa in opera avviene sempre sulla base di fondamenti ermeneutici variamente componibili e accettabili solo se non rigidamente prefissati (come ha messo in luce Enrico De Angelis riflettendo sulla nozione di storia della letteratura). E però, in una forma verificabile e, a suo modo, falsificabile, ogni organizzazione del campo letterario deve condurre a una mappa virtuale, che indichi centro e periferia all’interno di territori omogenei (in primo luogo, per ora, nazionali) e poi in ambiti via via più vasti, sino al sistema mondo, nel quale un Derek Walcott non può non avere uguale dignità rispetto a un poeta occidentale o di altri territori e non solo per i suoi contenuti o per la sua posizione postcoloniale.
Qui si tocca uno dei limiti a mio avviso più forti nelle linee interpretative proposte o derivate da Said, quello della sua incapacità di dar conto di tutte le componenti dei testi più importanti che si è trovato a esaminare. Se prendiamo a esempio le analisi contenute in Cultura e imperialismo (Culture and Imperialism, 1993), ci accorgiamo che l’eccezionale sottolineatura degli aspetti imperialistici in Conrad produce una sottovalutazione degli aspetti più propriamente psicologici e comportamentali, giustificabili ‘localmente’ e di non scarso rilievo, dopo che si sia compreso che i motivi dei viaggi e delle azioni sono in primo luogo di tipo economico-politico, e quindi giustificabili ‘globalmente’. Il metodo euristico di Said conduce cioè a far emergere alcune componenti di sostrato nella genesi di molte opere letterarie, ma ne trascura poi molte altre, indispensabili ai fini di una lettura non eccessivamente parziale dei grandi testi. In quest’ottica, la parte svolta dalle culture nazionali dovrà certo essere valutata nella dimensione dell’imperialismo, e però anche in quella dell’approfondimento di tradizioni che dovrebbero costituire non un mero elemento distintivo, bensì una base comparabile per costruire insiemi sempre più ricchi e sfaccettati (e non indifferenziati, come sta avvenendo nella forma attuale di globalizzazione). Insomma, qui si adotterà, su basi diverse, una prospettiva analoga a quella che lo stesso Said indica in chiusura del suo saggio su Nazionalismo, diritti umani e il problema dell’interpretazione (Nationalism, Human Rights and Interpretation, 1993): in esso, dopo aver segnalato con grande chiarezza i motivi che portarono numerosi intellettuali, tra Otto e Novecento, a considerare ovvia l’identificazione tra Stato-nazione, miglior cultura e migliore condizione dell’io, sottolinea che ai palestinesi in questo momento sopraffatti dalle rivendicazioni del popolo ebraico, sostenute da quasi tutto il mondo occidentale, deve essere comunque riconosciuto lo status di nazione; una volta ottenutolo, deve cominciare il processo di integrazione delle culture che hanno avuto la loro culla nella Palestina, senza cancellare i diritti e la storia di nessuna. Mi pare un’ipotesi importante, specie considerando la vicenda intellettuale di chi la sostiene, e comunque ne ricavo un invito a cercare i caratteri aggreganti di una letteratura nazionale, da leggere in modo mobile e flessibile (tenendoli distinti da quelli che sino a poco tempo fa si chiamavano i tratti identitari, spesso rigidi se non contrappositivi). Una volta che si sarà proceduto a questa ricognizione, e all’individuazione di opere particolarmente rappresentative (che però devono essere valutate anche da altri punti di vista, in primis quello stilistico, come vedremo più avanti), si potranno meglio valutare i rapporti internazionali, allo scopo non di rimarcare le colpe dei padri, comunque presupposte, ma di trovare consonanze profonde per arrivare a una più alta e ricca sintesi effettivamente inter-culturale.