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1 aprile 2012

Di Alberto in: Proposte

I nuovi livelli della realtà


Una discussione sui premi letterari e sui modi per valorizzare la nuova letteratura, a partire dall’esperienza come giurato al premio “Italo Calvino”

 

I nuovi livelli della realtà

 

Mentre le motivazioni di un premio letterario per editi possono sostanzialmente rimanere invariate, quelle di un premio per inediti probabilmente devono cambiare nel tempo. In effetti, alla fine degli anni Ottanta, quando è nato il “Calvino”, le possibilità di farsi notare erano, per gli aspiranti scrittori, sostanzialmente legate al giudizio di critici e lettori esperti, che potevano fare da mediatori con le case editrici o comunque certificare una pre-valutazione positiva, più difficile da ottenere in modi diretti. Nelle case editrici, infatti, sempre più invase da manoscritti di ogni natura, cominciava a vigere una serie di filtri molto più selettiva, che implicava anche una valutazione strettamente commerciale, al di là dell’effettiva qualità dell’opera. In un certo senso, diventava materialmente impossibile l’azione di talent scout che Calvino stesso aveva per tanti anni praticato, e che veniva a essere demandata a sedi diverse, per esempio i premi per inediti dotati di giurie prestigiose.

Chi si è rivolto al “Calvino” per far conoscere le proprie prove narrative lo ha fatto dunque, per molti anni, sicuro di trovare un’udienza seria, in grado di individuare non solo opere compiute e mature, ma anche opere “in potenza”, ricche cioè di fermenti da sviluppare, che una casa editrice non poteva più far crescere internamente, ma che, adeguatamente curati, potevano produrre frutti notevoli. Non si trattava cioè di rincorrere le mode, di trovare libri capaci di imporsi magari per una stagione, bensì di segnalare autori che manifestavano una ricchezza per il futuro. Tra i vincitori e i finalisti del “Calvino” è possibile così riconoscere molte ‘scommesse’: al di là di coloro che hanno poi pubblicato i loro lavori, di certo il gruppo di testi selezionati in oltre vent’anni costituisce un patrimonio di grande rilevanza.

Ma oggi, quando ormai gli esordienti trovano molti modi per farsi notare, a cominciare da internet e dai tanti blog letterari, quali sono gli ambiti e la specificità di un premio per inediti? Io sono convinto che siano ancora molte perché le potenzialità che ormai si perdono nella massa abnorme di testi narrativi che circolano in tutte le forme sono forse ancora più elevate che in passato. Stiamo assistendo pure in letteratura (sebbene, a dire il vero, il discorso per la poesia andrebbe calibrato a parte) a un fenomeno tipico della fase economico-sociale che gli specialisti chiamano della “mobilizzazione dei consumi”: il genere che “tira”, lo stile che piace, i temi che sembrano importanti spostano i lettori, li coinvolgono e insieme li legano a determinate modalità di racconto, escludendone di fatto altre che non attirano, non fanno tendenza. Ciò impedisce a ottimi libri di essere pubblicati; ma, va aggiunto, persino quando lo sono, i libri ‘fuori tendenza’ godono al massimo dei tre mesi di visibilità concessa nelle librerie e poi scompaiono dal circuito, molto spesso senza che sia stato possibile farne una valutazione adeguata.

Il ruolo di un premio per inediti oggi può essere anche quello di opporsi a un movimento talmente forte da cancellare quasi il primum di ogni autentica lettura di opere letterariamente elaborate, ossia la meditazione, come ci ha ricordato Claudio Giunta in un libro che dovrebbe essere ancora oggetto di un’ampia discussione (L’assedio del presente. Sulla rivoluzione culturale in corso, Il Mulino, Bologna 2008). L’attenta e ripetuta lettura degli inediti dovrebbe cioè consentire di individuare forme e stili non tanto originali o nuovi in assoluto, dato che attualmente il nostro Zeitgeist non ce lo consente, bensì all’altezza dei tempi. Le opere da segnalare o da premiare devono cioè essere in grado di dirci qualcosa di più rispetto all’infinità di informazione che ci satura: e non si tratta di una banale situazione esteriore quanto piuttosto di una forma mentis che abbiamo ormai introiettato, e che quasi anestetizza il quantitativo abnorme di fiction non voluta, sovrapposto alla nostra percezione del reale. Del resto, trovare forme che fossero in grado di darci un’idea della realtà, ovvero un realismo non di facciata ma demistificatore come sarebbe piaciuto ad Adorno, è sempre stato uno degli obiettivi primari di Calvino: incapace di essere neo-realista o neo-avanguardista quando andava di moda, e invece pronto a inventare vie sue – che, per esempio, fornissero un’anima agli schemi astratti dell’Oulipo, come è riuscito a fare con Le città invisibili.

Il premio “Calvino” può insomma selezionare le migliori prove narrative, tra le centinaia che arrivano ogni anno, senza incorrere in nessuno dei pregiudizi con cui gli aspiranti scrittori si trovano spesso a fare i conti. Prove che siano dense, capaci di suggerire connessioni con la grande tradizione narrativa, persino a dispetto delle effettive letture degli autori. Prove che siano ancora in grado di attuare, sia pure con modalità adatte al presente, un precetto tipicamente calviniano, quello di saper cogliere i diversi “livelli della realtà” attraverso la scrittura: ovvero, di saper dare una forma compiuta ai tanti aspetti che, del nostro presente, restano ancora indefiniti.

 

Il romanzo vincitore della ventunesima edizione del Premio “Calvino”, Quaranta di Gabriele Caprioli (che purtroppo sembra essere rimasto tuttora inedito), si è messo in evidenza per la sua capacità di coniugare la linearità di un asse portante di tipo diaristico con la molteplicità degli inserti, testi di canzoni e schede di tipo biografico su episodi delle vite di uomini illustri e non. L’occasione emblematica del racconto è quella del raggiungimento dei quarant’anni, che il protagonista festeggia da solo, confessando subito di non aver niente di cui essere felice e di voler fare una “festa a rovescio” accendendo 40 calendine Ikea. Gli interventi di questo personaggio anonimo, che si possono configurare come una sorta di confessione (adatta a uno sviluppo teatrale), non si limitano però al narcisismo della sconfitta, e nemmeno all’elencazione degli eventi più o meno significativi di una vita che attraversa il periodo del terrorismo così come quello del nuovo-falso boom della New Economy, e che si svolge sullo sfondo di una società, quella italiana, sempre meno capace di utopia. Questa vita quasi banale viene ricollegata a quella di tanti altri personaggi in virtù di accostamenti precisi e tuttavia non perfettamente simmetrici: gli inserti, insomma, sono motivati grazie a un collegamento che definirei più di sinapsi che non di progettazione (peraltro non assente).

In questo modo la struttura di Quaranta recupera un grande principio compositivo della narrativa più tipicamente novecentesca, il montaggio, che ha dato prove affini a questa di Caprioli sin dalle sue forme moderniste, per esempio nei romanzi di Dos Passos, e che poi è diventato dominante pure in opere cinematografiche, come la splendida America oggi di Altman (ricavata, andrebbe sempre ricordato, dagli altrettanto splendidi racconti di Raymond Carver). In questa trafila, il libro di Caprioli non si segnala per la novità assoluta e nemmeno per la perfezione: a volte qualche inserimento di tasselli biografici o di testi musicali può apparire persino un po’ forzato. È invece l’eterogeneità del montaggio stesso a colpire, e a rappresentare bene un aspetto fondamentale della nostra percezione del presente, quello della sua vaghezza. In un tempo privo di coordinate e apparentemente invalutabile, questo romanzo ha il coraggio di rappresentare un individuo che non fa della sua malinconia e delle sue insoddisfazioni una giustificazione o un alibi per il non sapere agire.

Anzi, il protagonista di Caprioli agisce e addirittura si vuole impegnare, per esempio partecipando al G8 di Genova nel 2001, nonostante le tante difficoltà: solo che, una volta arrivato, si rende conto di capire ben poco, e soprattutto che «era sempre più noioso stare dalla parte giusta». Una frase che, al pari di tante altre di Quaranta, fa meditare perché sintetizza esemplarmente la condizione psicologica di generazioni, come quella degli attuali quarantenni, le quali si sono trovate a subire cambiamenti che non potevano controllare, e che spesso hanno affrontato con strumenti ideologici o anche semplicemente culturali non adeguati. Ecco perché un ragazzo vicino ai valori della sinistra si può ritrovare a fare lo speculatore in banca mettendo a frutto la sua abilità nell’usare i listini on-line. Ecco perché gli anni Novanta si presentano qui come “ruvidi”, adatti a distruggere piuttosto che a salvare i giovani che li dovevano attraversare: e per tanti, persino l’aver vinto sul piano simbolico del denaro può in fondo rappresentare una sconfitta sul piano reale dei rapporti umani.

Il giorno del compleanno il protagonista si trova dunque a ripensare che cosa ha veramente determinato la sua condizione: e in fondo non sa rispondere. D’altronde, nemmeno il puzzle di vite totalmente diverse dalla sua (da quella di Bush a quella di Berlusconi, da quella di Mennea a quella di Paolo Rossi…) è sufficiente a fornire una spiegazione del perché si deve vivere così: e forse non potrebbe essere diversamente, ma intanto Quaranta prova a farci riflettere. Per rappresentare il suo mosaico incompiuto Caprioli usa stili cangianti: su tonalità cupe può immettere risonanze umoristiche, satiriche e addirittura grottesche, spesso soffermandosi su dettagli che acquistano valore solo dopo molte pagine. Da ultimo si viene a scoprire che la vita del suo protagonista, più ancora che dai miti ormai inattingibili, come Che Guevara, è segnata dai numeri e dalle parole. E proprio contro l’onnipotenza dei numeri da grande o piccola finanza, il quarantenne di Caprioli vuole ritrovare il valore delle parole, specialmente quelle della buona letteratura che, alla fine, dopo tante riletture, gli si scolpiscono nella testa.

 

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