Sul realismo oggi – II parte
Questa è la seconda parte di un intervento su Realismo e allegoria nella narrativa italiana contemporanea, uscito nel volume Finzione cronaca realtà, curato da Hanna Serkowska e uscito nel 2011 per Transeuropa.
3. Avviciniamoci adesso all’ambito specifico del ‘realismo allegorico’, tentando pure in questo caso di distinguere meglio tipi e modalità. Diversamente da quanto sostiene Benjamin[1], l’allegoria non è riducibile a mera espressione: privilegiando una genesi di pensiero, e quindi cognitiva in senso lato, dei processi metaforici, solo a posteriori incanalati in una forma linguistica, dovremo considerare l’allegoria come la possibilità di sviluppare sensi ulteriori di un pensiero suggerito mediante una rappresentazione. In altri termini, l’allegoria interviene a potenziare una valenza gnoseologica interna alla lettera, con un’asseverazione che può risultare evidente (specie in determinati contesti culturali, propensi a una lettura di secondo grado dei testi), oppure molto più sfuggente, ambigua, ma comunque necessaria per giustificare i segnali testuali che, altrimenti, rimarrebbero disattesi. L’allegoria quindi si può adattare, teoricamente, a qualunque tipo di discorso: ma nel tempo, alcuni processi allegorici diventano banali e poco significativi, mentre altri se ne creano, purché gli strumenti cognitivi messi in opera dall’artista siano in qualche misura reinterpretabili[2].
Esaminiamo allora alcuni procedimenti allegorici che si sono storicamente realizzati. Indichiamo con A il testo di partenza e il suo significato letterale, che ne genera poi altri (B, C, D ma anche non-A). Possiamo distinguere almeno quattro processi fondamentali:
(1) da A → B (l’allegoria classica, come quella di Dante nel primo canto dell’Inferno, usata sino a oggi): il significato letterale rimanda a un senso ulteriore, più o meno facilmente decodificabile, che in genere relativizza il valore semantico di primo grado (nei termini di Agostino di Dacia e poi di Nicolas de Lyre: “Littera gesta docet, quid credas allegoria”);
(2) da A → B, C, D (allegoria presente ancora in Dante, p.e. negli ultimi canti del Purgatorio, nel barocco, nella fase tra classicismo e romanticismo in alternativa al simbolo, secondo la tipologia di Goethe, ecc.): il significato letterale rimanda a più sensi ulteriori, non tutti immediatamente decodificabili, però non indefiniti (come invece accade nel simbolo);
(3) da A → B? (allegoria forse già individuabile nel fantastico dell’Ottocento, ma soprattutto in Kafka, Beckett, in DeLillo, ecc.): il significato letterale risulta insoddisfacente e si deve postulare un senso ulteriore, ma non è chiaro quale esso sia: è lecito e anzi necessario avanzare ipotesi di senso, che però non possono essere definite in modo ultimativo;
(4) da A → non-A (riscontrabile a cominciare forse da Finnegans Wake, e poi in scrittori postmoderni come Pynchon, in parti di Underworld di DeLillo, ecc.): anche in questo caso il significato letterale risulta insoddisfacente, e il lettore viene spinto a cercare un senso: ma spesso, a distanza di qualche pagina, quel senso viene sconfessato da affermazioni contraddittorie con le precedenti, tanto da rendere indecidibile in senso logico la semantica testuale nel suo insieme.
Un importante corollario dovrebbe ancora riguardare la distinzione di campo fra l’allegoria stessa e il simbolo. È ovvio il riferimento alla matrice goethiana di questa distinzione, che peraltro nasceva in un periodo storico-letterario votato all’assoluta preminenza del simbolico, date le sue implicazioni metafisiche oltre che gnoseologiche. Oggi possiamo sostenere che il simbolo si fonda su un frammento di realtà, caricato di un senso inconsueto e non circoscrivibile – che può poi diventare consueto e banalizzato; nelle opere più interessanti nate durante il periodo del romanticismo o del simbolismo o di certo surrealismo, il senso è non evidente e non necessario[3]. In una prospettiva interartistica, buoni esempi per corroborare questa ipotesi vengono dall’ambito pittorico, dove prevale l’evidenza sintetica del rapporto tra forma-colore e senso da attribuire: basti pensare, al di là delle forti differenze, all’opera di Kandinskij e a quella di Pollock.
L’allegoria, invece, parte da un frammento di realtà caricato di un senso inconsueto ma circoscrivibile con un’interpretazione plausibile (sia pure entro certi limiti, come visto sopra), con un grado maggiore o minore di evidenza e necessità (magari da scoprire a più livelli: i quattro sensi delle scritture, il double coding teorizzato da Eco, ecc.). Di nuovo, alcuni riferimenti pittorici possono risultare significativi: diversamente allegorici risultano in effetti i processi artistico-cognitivi attuati da un Paul Klee, da un Francis Bacon, da un Anselm Kiefer. Ma a una lettura allegorica rinviano anche i prototipi del postmodernismo in quanto arte senza profondità, omologa al contesto socio-culturale che l’ha generata: faccio riferimento al Warhol di Fredric Jameson, che funge da paradigma interpretativo anche per i testi letterari coevi[4].
4. Venendo all’analisi del presente, mi limiterò ad analizzare qui alcuni casi esemplari di uso dell’allegoria in opere che mirano a essere realistiche, in entrambe le accezioni (ristretta e allargata) sopra individuate. In genere il procedimento allegorico sembra mirare non a una scarnificazione bensì a un potenziamento del livello descrittivo, che spesso prevale rispetto a quello propriamente narrativo. Molti dei testi che puntano a una lettura di secondo grado rinunciano alla costruzione di un intreccio di per sé fondativo di un senso (come nel grande romanzo dell’Otto e del primo Novecento), e propongono una narrazione sostanzialmente semplice, lineare o con poche deviazioni, che pare limitarsi a organizzare un frame precostituito: ciò è evidente nella forma standard del poliziesco, che ormai si basa molto più sulla caratterizzazione dei personaggi che non sulle implicazioni della trama. La componente allegorica risulta indispensabile per evocare un senso compiuto, in grado di superare la dispersione sentita come consustanziale alla realtà (i delitti non scoperti, le occasioni perdute, l’incertezza sulle distinzioni etiche, gnoseologiche, ontologiche stesse…). Questo processo, però, di frequente si ferma al livello (A) prima individuato, se non si coniuga con un’idea di realismo che sia hegelianamente ‘all’altezza dei tempi’, e che quindi comporti un sensibile ampliamento cognitivo.
Esaminiamo allora più in dettaglio il rapporto tra realismo, epica e allegoria nella già citata Nie di Wu Ming (ma le parti che ci interessano sono state scritte principalmente da Roberto Bui). L’obiettivo fondamentale è riconoscere che esiste una nebulosa letteraria italiana che, a partire dalla metà degli anni Novanta e soprattutto dall’11 settembre 2001, ha generato opere difficilmente catalogabili ma contraddistinte dal rifiuto del paradigma ironico-citatorio tipico della letteratura postmodernista, e orientate a catturare aspetti della condizione socio-politica attuale, valutata non soggettivamente bensì collettivamente (anche nel senso della comunità virtuale creata dai blog). A Wu Ming non interessano i generi e gli stili impiegati, e ciò consente di affiancare opere a prima vista assai dissimili, da Gomorra ai romanzi di Genna o Evangelisti, ad alcuni di quelli di Siti e persino di Eco o di Camilleri. Importa invece segnalare oggetti narrativi ‘non identificati’ però dal forte impatto comunicativo: “Il New Italian Epic è complesso e popolare al tempo stesso, o almeno è alla ricerca di tale connubio […] la complessità narrativa non è ricercata a scapito della leggibilità” (Nie, cit., pp. 32-33).
Riguardo al problema specifico del realismo, il saggio di Wu Ming è piuttosto chiaro: “Il ‘realismo’ è solo una delle tante frecce nella faretra di un autore. Alcune opere Nie sono ‘realistiche’, altre poco, altre ancora per nulla, anche nella produzione di uno stesso autore” (ivi, p. 68). Realismo viene qui inteso nel senso ristretto sopra indicato, mentre sarebbe la dimensione epica ad allargare le possibilità narrative, facendo ascendere il racconto dal piano denotativo a quello connotativo, senza eliminare il primo. Questo passaggio permette implicitamente di parlare di procedimento allegorico, che in effetti è quello invocato espressamente da Wu Ming per leggere correttamente i testi della Nie. Dopo aver evidenziato i limiti del procedimento allegorico ‘a chiave’ (ossia il nostro tipo A), si aggiunge:
Tuttavia, non tutte le allegorie storiche sono ‘a chiave’ (intenzionali, esplicite, coerenti, ‘biunivoche’). In senso lato, qualunque opera narrativa ambientata in un’epoca passata è un’allegoria storica, che l’autore la intendesse o meno come tale […] tutte le narrazioni sono allegorie del presente, per quanto indefinite. La loro indeterminatezza non è assenza: le allegorie sono ‘bombe a tempo’, letture potenziali che passano all’atto quando il tempo giunge […]. Questo livello dell’allegoria è privo di una ‘chiave’ da trovare una volta per tutte. È l’allegoria metastorica (ivi, pp. 50-52).
Appoggiandosi al Benjamin del Dramma barocco tedesco, peraltro letto tenendo conto delle successive analisi sociologiche benjaminiane, Wu Ming punta a convalidare un processo ermeneutico che valorizzi in qualunque tipo di opera l’esistenza di un allegoritmo, un algoritmo che induca il lettore a interrogarsi sulle cause profonde degli sviluppi storici (la lotta tra il Potere e i suoi Antagonisti). Nel saggio emerge, da ultimo, una dimensione utopica molto attiva, che spinge a mettere in contatto il finale della Waste Land (“Shantih shantih shantih”) con l’azione intrapresa dai testi Nie per superare la condizione di falsa pace (almeno sul fronte occidentale interno ai paesi capitalistici) e per ipotizzare un ‘futuro anteriore’ del tutto diverso, in primo luogo per l’Italia[5].
Parecchie di queste analisi sono condivisibili, a prescindere dalle questioni più propriamente di poetica. E tuttavia le opere realizzate da Wu Ming, così come altre in qualche misura affini, non raggiungono per ora gli obiettivi previsti. Il problema si pone, probabilmente, nel difficile equilibrio fra elementi standard delle narrazioni attuali (intrecci fondati su archetipi ormai entrati nell’immaginario collettivo, dalla ricerca della Causa secondo il paradigma indiziario alla descrizione degli eventi – o dell’Evento – secondo la consequenzialità storica, ecc.) e la loro elevazione a un piano epico-allegorico che non sia in tutto e per tutto cogente.
Prendiamo in considerazione Manituana[6]. Dove questo oggetto narrativo a base storica manifesta una dimensione allegorica? Senza dubbio a livello dei metaracconti, ovvero dei racconti mitologici (degli indiani d’America) o storico-razionalizzanti (degli europei entrati in contatto con quel mondo), che dovrebbero creare una sorta di super-interpretazione degli eventi accaduti intorno al 1775 nella zona tra gli attuali Stati Uniti e il Canada. I riferimenti di questo tipo sono molteplici, e si addensano intorno alle figure ‘duplici’ (indiane ed europee), come due dei protagonisti, Joseph e Molly Brant. L’isotopia dei metaracconti dovrebbe costruire un senso non scontato, comunque superiore a quello ricavabile dalla mera organizzazione della trama.
Ma ecco, auerbachianamente, un campione preciso, che ricaviamo dal cap. 27 della parte intitolata Irochirlanda, 1775. Durante una notte di veglia, il giovane Peter Johnson, figlio di Molly e restituito alla sua origine Mohawk per andare a combattere – e a sacrificarsi – nell’ambito della guerra tra Francia, Inghilterra e Sei Nazioni irochesi, narra al soldato inglese Walter Butler e a tre guerrieri di Canajoharie la leggenda della nascita e del destino del luogo detto Manituana:
– Due tribù si contendevano la Terra. Una abitava a nord del San Lorenzo, l’altra a sud. Il Padrone della Vita, amareggiato per quella guerra, decise di scendere dal cielo con un misterioso bagaglio. […]
- Il Padrone della Vita srotolò la coperta e dentro c’era una terra di delizie, creata perché tutti vivessero nell’abbondanza e non ci fosse più motivo di combattere […]. Per lunghi anni, il popolo del Sud e il popolo del Nord vissero in pace su Manituana. [… Ma poi] la gente del Nord e la gente del Sud ripresero a odiare […]. Le grida e i canti di guerra salirono in alto e spinsero il Padrone della Vita a scendere una seconda volta. Arrivato sulla terra, capì che gli uomini combattevano di nuovo per colpa del suo regalo. Allora raccolse la coperta e la portò via. Ma mentre scostava la tenda del cielo, la coperta si aprì e la terra precipitò nel fiume.
La voce di Peter si fece più profonda, il ritmo delle parole rallentò.
- Si levarono onde altissime e i guerrieri schierati sulle sponde morirono tutti. Manituana si frantumò in pezzi, briciole, scogli. Le Mille Isole del San Lorenzo.
- E i figli rimasti sull’isola? – domandò uno dei giovani guerrieri. – Che ne fu di loro?
Peter guardò la tazza che aveva tra le mani ed elargì il finale a sorpresa.
- Quei figli siamo noi. (Manituana, cit., pp. 134-5).
A questa costruzione mitologica, generica e quindi adatta a un’immediata trasposizione allegorica in relazione al presente, Walter Butler risponde offrendo una sua storia (peraltro riportata in un discorso indiretto), che dovrebbe rievocare veridicamente la vicenda di Ethan Allen, “il Golia delle Verdi Montagne”, e della conquista di Fort Ticonderoga:
Ethan Allen era un brigante sanguinario, alto più di sei piedi. Da anni spadroneggiava sulle Green Mountains. […]. Il re in persona aveva messo una taglia di trecento sterline sulla sua testa […]. Quando i whig avevano sparato contro l’esercito a Lexington e Concord, e subito dopo avevano preso d’assedio Boston, Allen aveva capito che poteva allearsi con loro. Quelli ce l’avevano col governatore del Massachusetts, lui con quello di New York. Il suo scopo era proclamare le Green Mountains territorio indipendente, e con l’aiuto dei Bostoniani poteva riuscirci. Così era diventato whig anche lui.
Avevano preso Fort Ticonderoga mentre la guarnigione era ubriaca. Ethan Allen aveva gridato: “In nome del Grande Jehovah e del Congresso continentale, io prendo possesso di questo forte!” I Green Mountain Boys erano entrati puntando i fucili. Come quando i Greci erano entrati a Roma nascosti in un grande cavallo di legno, solo che il cavallo di legno non c’era (Manituana, cit., p. 136).
Al di là delle probabili allusioni alla realtà politica italiana (in sostanza, si parla dell’alleanza fra un indipendentista ‘verde’ e i whig per prendere il potere), il finale del discorso di Butler, ancorché incompiuto, è significativo: la grossolana confusione fra la conquista di Troia e una lotta tra Greci e Romani (che sorprende anche Peter: “I Greci a Roma? Peter stava per obiettare…”, ibid.) è il comico segnale di una lettura approssimativa o addirittura fuorviante dei fatti storici, tipica della cultura occidentale. Viceversa, l’intero romanzo porterebbe a far emergere la necessità di leggere gli eventi sia nella loro brutale materialità, sia nel loro valore mitologico-allegorico di una tensione alla pace continuamente contraddetta[7].
Il problema che emerge, però, è quello del livello allegorico che viene così ottenuto: nonostante le diversioni e le possibili surdeterminazioni (anche nel web: cfr. n. 12), di fatto la possibilità di lettura della storia nel suo insieme resta ancorata al paradigma della scoperta del Potere occulto come causa delle storture storiche, che ha conosciuto numerosissime declinazioni a partire dal secondo dopoguerra. Non è quindi limitativa (come pure è stato sostenuto) la scelta di adottare uno stile funzionale alla leggibilità immediata[8], quanto l’impossibilità di uscire da un circuito di interpretazione unica: le diramazioni di senso risultano soltanto secondarie rispetto alla linea principale, e perciò la vicenda di Manituana non si può non leggere come allegoria delle attuali prevaricazioni politico-militari.
In effetti, rispetto alla fase di Q (1999), il gruppo Luther Blisset-Wu Ming ha abbandonato la combinazione di utopismo mitologizzante, che impostava l’analisi sociopolitica all’insegna di una generica fiducia nel potere demistificante delle contro-narrazioni. Ma, a tutt’oggi, la separazione assiologica bene/male agisce in profondità nei testi di Wu Ming e condiziona inevitabilmente l’esercizio allegorico. Potremmo dire, assumendo con estrema parzialità un’affermazione di René Girard, che i loro oggetti narrativi non giungono a mostrare la dimensione del romanzesco in quanto “verità dell’epica”[9]. In altri termini, l’epica che viene idealizzata allegoricamente in Manituana è in sostanza ancora basata sull’assunto che esista il Male come forza storica e metastorica, mentre invece il romanzo non può non superare questa posizione manichea per continuare l’indagine del Vuoto nascosto dall’ipotesi del Male assoluto. In questa direzione si sono volti autori che, per esempio, hanno scelto di rappresentare la Shoah come estrema manifestazione della volontà di potenza umana: basti pensare a due opere in qualche misura polari come Vedi alla voce: amore (1984) di David Grossman e Le Benevole (2006) di Jonathan Littell, entrambe esempi di potenziamento del realismo facendo interagire un grado zero, però di per sé rappresentato dalla descrizione dell’estremo (Todorov), con l’uso non prevedibile di modalità del discorso letterario che ne evitano l’effetto assolutizzante (la favola come mezzo di una percezione del mondo da bambino e insieme da adulto, nel primo caso; la confessione autobiografica aberrante e, nei punti di massima tensione, onirico-schizofrenica, nel secondo).
Viceversa, la tendenza all’allegoria unica e assoluta (che corrisponde a uno stile dell’enfasi ‘obbligatoria’) è attiva in molti autori vicini ai Wu Ming, a cominciare da Valerio Evangelisti, ma più largamente in uno dei primi compagni di strada, Giuseppe Genna[10]. Il più recente percorso di Genna, tra Dies irae (2006) e Hitler (2008), parte da una composizione allegorica indecidibile, in cui le ossessioni personali, i lacerti di cronaca italiana e la visione postuma da un futuro fantascientifico s’intersecano ma non si potenziano tra loro, come accade invece nel modello (purtroppo un unicum che può solo essere semplificato) di Underworld; e giunge alla esemplificazione di traumi storici implicitamente riferiti al termine di paragone del Male stesso nato in terra, l’Hitler che è immediatamente trasposto nell’ambito del mitico. Basti riportare l’incipit di Hitler:
Confrontatevi con lui.
Considerate se questo è un uomo.
È scatenato nei cieli, immenso, invisibile, entra nel tempo e ne riesce, digrigna i denti giallastri, immensi, i suoi occhi di brace illuminano tutte le notti future.
È il Lupo della Fine, si chiama Fenrir[11].
Non importa che la chiave di lettura risulti più complessa di quanto non appaia da questo attacco: il processo di accostamento mitico-allegorico tra il Male e Hitler è comunque il pre-giudizio che informa la costruzione successiva. Genna ha ripetutamente rielaborato la sua opera per evitare l’accusa di ideologizzazione, essendo invece suo modello ideale il racconto come sintesi di testimonianze alla Claude Lanzmann. Ma il problema di fondo è che anche in questo caso l’allegoria, da politonale, diventa monotonale perché non è possibile interpretare la funzione Hitler se non nella modalità del Potere riversato su di sé e quindi thanato-centripeto: la storia, anziché essere illuminata da questa modalità allegorica, ne viene folgorata.
Da quanto sin qui emerso, si potrebbe evincere che l’uso allegorico risulti spesso solo apparentemente utile a ottenere un realismo potenziato: sebbene i testi di Wu Ming e di Genna appaiano per molti aspetti degni di considerazione, non sembra possibile evincere da essi tipi di allegoria che non ricadano, a un’analisi ravvicinata, nell’ambito del già conosciuto-ideologizzato. Si possono però osservare casi di uso parziale e tuttavia decisivo dell’allegoria. Per esempio, pur nell’affinità con Genna di alcuni tratti ‘massimalisti’, il primo romanzo di Giorgio Vasta, Il tempo materiale[12], suggerisce uno sviluppo che unisce dati materiali (l’Italia del 1978, tra la Palermo del bambino protagonista, Nimbo, e la Roma del delitto Moro), aspetti onirici (le storie di Nimbo e dei suoi amici, ribelli e terroristi, slittano di continuo tra piano della realtà e piano del sogno), e precise proiezioni allegoriche. È il caso di un episodio del capitolo Eclissi – Agosto 1978, in cui Nimbo sembra impegnato in un gioco da bambini, la caccia alle api di alcuni alveari, che però assume in seguito un valore dichiaratamente onirico e insieme cognitivo (“La notte sogno solo sciami. Nel senso che tutto quello che sogno, ogni figura, è scomposta in particelle mobili, come se del sogno sognassi la struttura atomica, il turbinare degli elettroni intorno al nucleo onirico, il ronzio chimico che si genera dai corpi”: Il tempo materiale, cit., p. 166), e infine una valenza allegorica:
[…] la quantità di api si è moltiplicata. È come se la loro rabbia fosse nei giorni aumentata fino a determinare un’alleanza tra gli alveari: la nube si dilata febbrile nel cielo, lo colma, la luce della sera scompare e al suo posto le api fanno la notte.
Nell’Esodo, la terza piaga che Dio infligge agli egiziani quando il faraone non vuole liberare il popolo d’Israele dalla schiavitù, è quella delle zanzare. Dio ordina a Mosè di percuotere la polvere della terra col suo bastone, la polvere della terra si trasforma in sciame e distruzione perché lo sciame copre il cielo e invade tutto, infierendo su uomini e bestie.
Fermo sotto questo doppio crepuscolo, la canna di bambù ancora in mano, mi sento un microscopico Mosè. Le api sono la piaga, io l’istituzione. Loro i brigatisti, io lo Stato. Che assedia, corrode, provoca e infine, fatta irruzione nei covi, affronta il coagularsi del nemico. Ma assediare, corrodere, provocare, sono anche i metodi della lotta brigatista (ivi, pp. 167 sg.).
L’interpretazione allegorica del piccolo evento, mediata dal modello biblico (come avviene anche altrove nel romanzo di Vasta), diventerebbe semplice con la duplice, esplicita identificazione api-terroristi, io-Stato. Ma è proprio questa allegoria facile che viene rifiutata, perché l’equivalenza si potrebbe ribaltare: e infatti poco dopo si giunge all’affermazione paradossale che “Stato e Br coincidono” (ivi, p. 168). Dopodiché, il finale dell’intero passo, nel quale lo sciame delle api giunge a oscurare il sole, risulta ancora più problematico, quasi un interrogativo radicale che si conficca nella testa del piccolo anagraficamente ma intellettualmente grande Nimbo: e anche quest’ultimo cortocircuito comporta uno spostamento dei confini cognitivi, che a sua volta provoca spesso forme di ironia riguardo al dramma raccontato, e insieme costringe a considerare quanto in profondità la possibile confusione tra bene e male ha inciso nell’esistenza e nella sensibilità etica delle ultime generazioni.
Ma per fare ancora qualche esempio di uso complesso dell’allegoria, consideriamo velocemente Troppi paradisi[13]: la funzione allegorica del personaggio che si chiama Walter Siti non viene determinata da un pre-giudizio ma dalla sua collocazione mediana (“campione di mediocrità”), che però lo conduce ad attraversare, quasi come un go-between, le condizioni tipiche dell’Occidente, ipostatizzato ma non reso totem. L’allegorismo quindi riguarda il processo interpretativo della banalità quotidiana che risulta ormai inscindibile dagli eccessi generati dalla superfetazione dei desideri, e realizzati solo in modo interposto (il fittizio televisivo come Reale più vero della realtà). La chiave di interpretazione è dunque saggistica e il suo limite non è ideologico ma piuttosto culturale: la sua forza sta nell’aver introiettato nel personaggio-everyman consapevolezze di solito scisse dall’azione concreta, riservate al dominio dell’elaborazione concettuale. In questo modo Siti evita che il suo procedimento allegorico possa ricadere nel tipo (A), rientrando invece nel tipo (B) più complesso (ma non indecidibile).
Pure nel caso di Gomorra è stata evocata una componente allegorica[14]. Preciso subito che, a mio avviso, il testo di Saviano non è inseribile nell’ambito degli ‘oggetti letterari non identificati’: il suo conclamato ibridismo è subordinato alla presenza di un io ‘autenticante’ che si assume la responsabilità di essere veridico, superando persino i limiti del falso e del fittizio (ossia, ricreando come veri anche dettagli probabilmente non tali, ma giudicati verosimili dal lettore). È evidente che Saviano reincarna la dimensione dell’autore che fa emergere la pienezza del senso dal magma delle vicende, che legge i segni di un ordine superiore persino entrando a contatto, quasi sciamanico, con i luoghi e gli oggetti che sono stati protagonisti di un evento delittuoso. La dimensione profetica, così tipicamente pasoliniana (ma anche di un sacerdote-testimone, come don Peppino Diana), comporta l’allegorico quando tende a interpretare come parte di un sistema i frammenti di senso insiti in fatti e gesti, altrimenti unicamente simbolici. Solo che nemmeno Saviano può garantire, al di là della sua piena compartecipazione alla vita e ai destini che ha rappresentato, che il senso ultimo della sua ricostruzione allegorica sia completo: ecco quindi che la forza di Gomorra sta anche nell’aver messo in luce non la certezza del Male, peraltro già nota, ma la precarietà di senso del male (con la emme minuscola), che non sembra più legato al singolo boss (incarnazione del demoniaco), ma diventa quasi la risultante casuale di una coazione a ripetere. La chiave di lettura di Gomorra dovrebbe quindi essere quella di un ‘realismo allargato’, mentre invece la tendenza è quella di inchiodare quest’opera a un ‘realismo ristretto’[15].
Per concludere, da questo breve percorso per exempla emerge comunque la tensione che percorre i campi del realismo letterario odierno. La propensione allegorica, lungi dal condurre alla ‘derealizzazione’, dovrebbe potenziare la richiesta di senso in teoria implicita in qualunque tipo di narrazione: ma ciò non si realizza, soprattutto se i pregiudizi del nostro conoscere non sono effettivamente posti in discussione, com’è accaduto, in modi diversi e purtroppo imitabili solo in modo passivo, in opere quali Underworld, Le particelle elementari, Le Benevole. D’altronde, il solo evitare i generi puri non impedisce di ricadere nel circolo vizioso dell’assunto già dimostrato che si torna a dimostrare. Così, per citare un paradigma implicito in molti dei testi esaminati, non può essere l’ossessione del Potere-Padre a determinare il senso allegorico della quête, bensì la consapevolezza del vuoto del Reale che minaccia continuamente la realtà. In questo senso, si può parlare di una necessità di trovare associazioni o sinapsi che producano un intreccio tra il sé biologico-storico, sempre meno unitario (e però spinto a crearsi un’identità), e il ‘troppo’ del web, in quanto nuova realtà virtuale ma più vera del vero, in quanto creatrice di realtà condivisa.
La dimensione ‘in negativo’ è chiara: si tratta di quella dello storytelling esaminato da Christian Salmon, e che da un lato mette in guardia contro la positività in sé del raccontare, dall’altro esalta le potenzialità del racconto pluriprospettico: non a caso, proprio in chiusura del suo saggio Salmon cita un’intervista in cui Don DeLillo ricordava la sua attività in un’agenzia pubblicitaria:
Mi ha insegnato a diffidare della tecnica dello storytelling, usata oggi dai nostri uomini politici: per far ingoiare l’inaccettabile, essi raccontano storie semplici, in cui tutti possono riconoscersi. Forse la mia esperienza come pubblicitario mi ha spinto a scrivere romanzi dall’architettura molto complessa, a non scodellare al lettore la pappa fatta[16].
E proprio per distinguere le diverse implicazioni del realismo, allegorico o meno, occorre a mio avviso che la critica torni anche a essere valutativa, allo scopo di costruire il più possibile valori condivisi. Per quanto mi riguarda, i vari tipi di realismo che possono essere individuati nella storia recente del romanzo – da quello estensivo di Tolstoj a quello intensivo di Proust, da quello ‘a montaggio’ di Joyce a quello ‘di smontaggio’ di Kafka ecc. – devono essere visti come varianti di un procedimento più ampio, che produce risultati significativi se riesce a ottenere una molteplicità di sfaccettature gnoseologiche, come quelle che Mandel’štam individuava nel poema di Dante. Il ‘realismo cognitivo’ non può che essere, oggi, un continuo tentativo di sondare (ed eventualmente varcare) i confini che un essere umano percepisce nel continuo confronto con la biologia e con la storia sue e di tutti i suoi simili.
[1] Si veda in particolare W. Benjamin, Il dramma barocco tedesco (1928), trad. it. Torino, Einaudi, 1971, p. 170: “L’allegoria […] non è una tecnica giocosa per produrre immagini, bensì espressione, così com’è espressione il linguaggio, e, anzi: la scrittura”. Inutile precisare che, della riflessione di Benjamin, molti altri aspetti risultano ancora fondamentali, a cominciare dalla seguente definizione: “L’allegorista estrae ora qui e ora là un pezzo del fondo scompigliato che il suo sapere gli mette a disposizione, lo affianca ad un altro e prova se si adattino l’uno all’altro: questo significato a quest’immagine o questa immagine a quel significato. Il risultato non può mai essere previsto, giacché fra i due non c’è nessuna mediazione naturale” (Parigi, capitale del XIX secolo [1982], a c. di R. Tiedemann, trad. it. Torino, Einaudi, 1986, p. 481, corsivo mio).
[2] Della vasta bibliografia sull’allegoria classica e moderna, cfr. almeno J. Pépin, La tradition de l’allégorie. De Philon d’Alexandrie à Dante, Paris, Études augustiniennes, 1987; J. Whitman, Allegory: the dynamics of an ancient and medieval technique, Oxford, Clarendon P., 1987; Id. (a c. di), Interpretation and allegory: antiquity to the modern period, Leiden-Boston-Köln, Brill, 2000. Opportune distinzioni di natura linguistico-enunciativa si ricavano da M. Cerroni, “Li versi strani”. Forme dell’allegoria nella “Commedia” di Dante, Pisa, Ets, 2003, specie pp. 11-38. Per alcune valutazioni sulle interpretazioni allegoriche recenti, cfr. R. Campi, Favole per dialettici. Allegoria e modernità, Sesto San Giovanni (Mi), Mimesis, 2005.
[3] Su questa problematica, oltre al volume di Luperini, L’allegoria del moderno, cit. si veda almeno E. Franzini, M. Mazzocut-Mis, I nomi dell’estetica, Milano, B. Mondadori, 2003, pp. 34 sgg.; e soprattutto E. Franzini, I simboli e l’invisibile. Figure e forme del pensiero simbolico, Milano, Il Saggiatore, 2008, pp. 123-161.
[4] Cfr. F. Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo (1991), trad. it. Roma, Fazi, 2007. Ma si veda anche il fondamentale L’inconscio politico (1981), trad. it. Milano, Garzanti, 1990: “L’interpretazione è intesa qui come atto essenzialmente allegorico, che consiste nel riscrivere un certo testo secondo i termini di un particolare codice interpretativo primario” (p. 10).
[5] Cfr. Nie, cit., pp. 60-61. Si veda, per un’analisi delle componenti fantastiche e anche allegoriche (oltre ovviamente a quelle politiche) nei testi utopici, F. Jameson, Il desiderio chiamato Utopia (2005), trad. it. Milano, Feltrinelli, 2007, specie pp. 66-83.
[6] Wu Ming, Manituana, Torino, Einaudi Stile Libero, 2007. Si vedano anche i materiali raccolti nelle pagine web dedicate al romanzo: si noti la presenza di un ‘livello II’, che contiene materiali relativi alla realizzazione dell’opera, capitoli espunti, ecc. Il romanzo successivo di Wu Ming, Altai, è uscito dopo la stesura del presente articolo.
[7] Per una serie di riferimenti interpretabili in senso mitologico-allegorico si veda, a titolo di esempio, Manituana, cit., pp. 76, 80-83, 580, 595 sg., 604-609, 613.
[8] Del resto increspato da tic o tratti marcati: si vedano p.e. i capitoli dedicati alla missione degli indiani a Londra (Mohock club 1775-76, specie pp. 261 ss.) paragonabili, per le scelte plurilinguistiche, al gergale di opere italiane e straniere, come Arancia meccanica.
[9] Cfr. R. Girard, Edipo liberato. Saggi su rivalità e desiderio, a c. di M.R. Anspach, trad. it. Massa, Transeuropa, 2009, p. 15: “Il romanzesco viene sempre dopo l’epica perché ne rappresenta la verità”. Per le analisi successive, si veda ancora S. Žižek, La fragilità dell’assoluto, cit., specie pp. 37-46.
[10] Per l’adesione, non lineare, di Genna al progetto Luther Blisset, resta fondamentale il rinvio al saggio-parodia net.gener@tion (Milano, Mondadori, 1996), in cui peraltro emergono componenti importanti per la sua poetica (e anche per quella degli altri sostenitori del progetto letterario ‘eversivo’). Come “manifesto delle nuove libertà” e “saggio visionario”, net.gener@tion esporta in ambito fantascientifico la condizione a-priori dei giudizi sulla condizione socio-politica contemporanea (“Star Trek elabora il nostro lutto per la fine di un’etica bipolare, nutrita della netta separazione tra bene e male”: p. 68) e dell’utopismo a essa contrapposto (“Desideriamo liberarci da tutto, anche da noi stessi”: p.75). Fatta la tara degli elementi contraddittori e burleschi, ne restano molti che giustificano un futuro uso del discorso allegorico-apocalittico.
[11] G. Genna, Hitler, Milano, Mondadori, 2008, p. 9. Numerosi i riscontri sull’allegorismo assoluto di questo testo: cfr. almeno la recensione di Franco Cordelli apparsa sul “Corriere della sera” del 31 gennaio 2008.
[12] Roma, minimum fax, 2008.
[13] W. Siti, Troppi paradisi, Torino, Einaudi, 2006. Per un’analisi dettagliata dell’intera trilogia di Siti, anche in rapporto all’uso allegorico, mi permetto di rinviare a Stile e tradizione…, cit., pp. 245-27, da integrare almeno con F. Giglio, Una autobiografia di fatti non accaduti. La narrativa di Walter Siti, Bari, Stilo, 2008.
[14] R. Saviano, Gomorra, Milano, Mondadori, 2006. Su questo testo, e altri affini, si veda l’Almanacco Guanda curato da Ranieri Polese, Il romanzo della politica. La politica del romanzo, Milano, Guanda, 2008.
[15] Qui si aprirebbe il discorso strettamente letterario su Gomorra: personalmente, ho grande stima di questo libro, ma considero anch’esso un unicum. L’usarlo contro un’‘ideologia della letteratura’ in quanto esercizio autonomo può essere rischioso, se questo comporta il relegare la costruzione eminentemente stilistica a un aspetto secondario. È fuori dalle limitazioni categoriche del non-fittizio che può essere ritrovato un fittizio romanzesco ‘denso di significato’ perché sintesi di una cognizione ampia. Su ciò si veda più oltre, a testo.
[16] Cfr. Ch. Salmon, Storytelling: la fabbrica delle storie (2007), trad. it. Roma, Fazi, 2008, p. 179. E ancora di DeLillo, sicuramente uno dei romanzieri più acuti anche sul versante dell’analisi socio-culturale, si veda quanto diceva commentando le notizie televisive sull’omicidio di Gianni Versace: “Tutti parlano dell’omicidio, ma non di come questa notizia si ripercuote sulle nostre vite, sul nostro modo di pensare, sui nostri sentimenti e sulle nostre paure. In realtà, non siamo in grado di parlarne, di riconoscere l’impatto delle immagini televisive sulle nostre esistenze. Credo che sia per questo che alcuni di noi continuano a scrivere romanzi” (in D. Remnick, Ritratti da vicino [2006], trad. it. Milano, Feltrinelli, 2007, pp. 151-152).