Sul realismo oggi – I parte
Questa è la prima parte di un intervento su Realismo e allegoria nella narrativa italiana contemporanea, uscito nel volume Finzione cronaca realtà, curato da Hanna Serkowska e uscito nel 2011 per Transeuropa.
1. Non credo che l’uso del sintagma ‘realismo allegorico’ susciti ormai alcun particolare turbamento: l’uso diversificato che, nel tempo, ne hanno fatto per esempio Edoardo Sanguineti e Romano Luperini, e la sua applicazione critica ad autori anche molto distanti come Balzac o Kafka, Calvino o il Gruppo 93, garantiscono che il cortocircuito fra realismo e allegorismo è tutto sommato riuscito. A patto però di non sondare i fondamenti epistemologici variamente sottesi a quest’espressione: perché allora si dovrebbero anche accettare inevitabili sovrapposizioni fra gli ambiti che, storicamente, siamo abituati ad assegnare alle forme per eccellenza mimetiche della letteratura moderna (dal Romanticismo in poi), e a quelle antimimetiche, avanguardiste, sperimentali e così via. O ancora, a coniugare la lezione di Lukács e di Auerbach con quelle di Benjamin e di Adorno, per limitarci ai capisaldi dei dibattiti e delle poetiche in questione[1].
Personalmente sono convinto che i termini del problema vadano rivisti: e verso questa strada spingono i numerosi tentativi di interpretazione degli sviluppi della narrativa italiana recente in senso più o meno apertamente allegorico: da ultimo, la versione provvisoriamente stabile della “New Italian Epic” (= Nie) individuata, elaborata, sostenuta dal gruppo Wu Ming, che ha suscitato una discussione a volte accesa e che in ogni caso si è posta come categoria interpretativa nonché come discrimine per la valutazione dell’attuale campo letterario italiano (e internazionale), addirittura proponendo non solo i termini di una poetica ma anche le valutazioni di una sia pur ravvicinatissima storia della letteratura[2].
Prima di arrivare a un esame specifico della Nie, che verrà affiancato dall’analisi di testi esemplari (scelti fra quelli collocabili nei punti strategici del campo letterario individuato), occorre procedere a una serie di considerazioni generali per saggiare i fondamenti teorici del nostro discorso. Riassumendo, per chiarezza, alcuni miei personali assunti, dirò che sono convinto che realismo sia una nozione non riducibile al mero ambito linguistico o nominalistico, e che in letteratura sia essenziale proporre una nozione di realismo che preveda un confronto con le forme della tradizione ma anche con i paradigmi filosofici e scientifici condivisi, in ogni epoca, nell’ambito dell’interpretazione della realtà. A puro titolo di esempio, oggi le scienze cognitive ci stanno insegnando quanto della ‘normalità’ del nostro agire sia condizionata da un inconscio appunto cognitivo che ci permette di conservare le esperienze pregresse e di rielaborarle costantemente, in rapporto ai nuovi stimoli del mondo esterno. Ciò che chiamiamo ‘realtà’, quindi, si rivela da questo punto di vista intrinsecamente costituito di oggettività e di soggettività, e va così a toccare gli ambiti della fantasia e delle ipotesi sul futuro, per certi aspetti non meno ‘realistiche’ dei dati materiali di un fenomeno[3].
2. Che ‘realismo’, anche a rimanere in ambito artistico, sia termine quanto mai polisemico lo si può dare per acquisito, dopo l’ampio e documentato saggio di Federico Bertoni[4]; né la prospettiva cambia se si accoglie il termine mimesis nella specifica accezione di ‘rappresentazione della realtà’ (l’insieme dei sensi acquisiti viene ridistribuito per le priorità, ma non modificato nella sostanza). Per tentare un primo chiarimento, consideriamo praticabili almeno due idee di realismo letterario: una ristretta (‘lo scrittore si vuole avvicinare il più possibile a una realtà storicamente definita e priva di elementi inverosimili o fantastici’) e una allargata (‘l’opera rappresenta una realtà confrontabile con quella percepita come normale, ma introduce elementi incongrui, anche inverosimili o fantastici, per costringere il lettore a un’interpretazione’).
Dunque è chiaro che il termine realismo assume valenze storicamente e testualmente diverse, e che solo per una (rispettabilissima) decisione euristico-critica lo si può limitare alla prima idea sopra esposta. Più elasticamente, si potrebbe parlare di varie gamme di realismo in grado di ottenere determinati livelli di rappresentazione del mondo esterno, fuso o meno con le sue modificazioni soggettive. Aggiungiamo poi le estremiste ma fondate provocazioni di Slavoj Žižek riguardo alla priorità del Reale rispetto alla realtà, sulla base della ben nota distinzione lacaniana, la quale però viene elaborata per demistificare luoghi comuni (come quello dell’inconoscibilità del mondo a causa della ‘caduta dell’esperienza’) e per sottolineare il punto di arrivo di ogni autentica ricerca filosofica e artistica: la consapevolezza che la Verità è in sé distorta e che non si può ipotizzare una figura unitaria (il padre, il potere, ecc.) sostitutiva di Dio per fondare la ricerca di un senso sottostante all’insensatezza apparente dell’esistere[5].
Badando quindi ai tratti dominanti individuabili in vari tipi di rappresentazione ‘realistica’, potremo parlare di priorità riservata a una visione del mondo di tipo ‘percettivo-ideologico’ (fondata sulla storia in quanto cronaca di eventi accertabili e sulla loro interpretazione, ideologica in senso lato); oppure di tipo ‘onirico’ (in cui emerge una logica simmetrica – alla Matte Blanco – anziché asimmetrica-aristotelica, con elementi ‘normali’ che si svelano progressivamente eccezionali, per esempio attraverso una percezione spazio-temporale non consueta, una voluta incoerenza dei rapporti fra trama e personaggi ecc.); oppure di tipo ‘allegorico’ (che sintetizza aspetti dei precedenti, e sulla quale appunto si tornerà più a lungo).
Il vantaggio di pensare a due macro-tipi e a vari tipi di realismo è quello di accettare un assunto che scientificamente risulta ormai scontato, e cioè che il reale non sia limitato agli aspetti storicamente accertati e condivisi, considerando, almeno in teoria, tutto ciò che sappiamo attualmente essere vero e dimostrabile, ma non percepibile: da Einstein sino alle teorie di Calabi e Yau sulle nove dimensioni dello spazio-tempo o alle ricerche genetiche e delle microbiologie ecc. Viceversa, ciò che non potrà essere accettato nell’ambito del realistico, e rimarrà quindi in quello del fantasy, sono le ideologie del desiderio, ovvero le proiezioni consce o inconsce di miti individuali o collettivi che portano a sovvertire non solo quanto è accertabile per lo meno per convenzione (il fattuale), ma anche quanto è ipotizzabile per estrapolazione scientifica dagli ambiti del percettivo (il virtuale, forma contemporanea del verosimile)[6].
Se accettiamo questi presupposti epistemologici, non potremo più parlare di un realismo unitario e onnicomprensivo, ma dovremo distinguere varie gradazioni: per esempio, tra un Tolstoj (o un Vassilij Grossman) e un Dick o un Ballard o un Lem (o Clarke-Kubrick di 2001: Odissea nello spazio), e ancora un DeLillo di Underworld o un Pynchon di Gravity’s Rainbow (che peraltro tende a impiegare, ma a mio avviso in modo consapevolmente ironico, modi del fantasy o più esattamente del fumettistico). Invece, non potremo accettare nell’ambito del realistico Barbie fairytopia, perché in quel caso (come in gran parte del fantasy) non si tratta di realismo onirico o allegorico, ma di proiezioni abilmente elaborate di un immaginario infantile pre-razionale e pre-culturale (cioè ancora privo di una dimensione culturale e interpretativa). Non c’è alcuna valenza cognitiva, neppure per analogia, in un film di questo tipo: la funzione dominante non comporta un’ipotesi di rilettura del mondo esterno, bensì l’autoconsistenza che mira al puro ‘divertimento’ (anche in senso etimologico), come ormai accade per gran parte della produzione artistica di tipo visivo-massmediatico. Anche in questo ambito sono certo individuabili esiti di vario livello, per esempio in film per bambini ma pensati per un pubblico adulto (come, fra gli ultimi, i notevolissimi Wall-E o L’era glaciale 3): non viene però superata la soglia del cognitivo, che comporterebbe una modificazione della nostra conoscenza del mondo.
In generale, il realismo si va a sostanziare come concetto multiplo ma non onnicomprensivo. Possiamo individuare quindi, in un’opera letterararia, la rappresentazione di una realtà ‘standard’ oppure un’interpretazione della realtà che tocca l’ambito del Reale: e ciò vale nel tempo, pure se si modificano i presupposti gnoseologici condivisi. Per esempio, Dante, formatosi alla scuola aristotelico-tomista, è disposto nel suo poema (ma certo non nei trattati) ad accettare l’inverosimile, e quindi ad affiancare personaggi storici e mostri mitologici, a realizzare complesse allegorie, a metaforizzare in modi del tutto inconsueti (addirittura con ‘analogie improprie’) per parlare del divino e di Dio stesso. Eppure tutto questo rientra, per lui ma anche per noi, nell’ambito del realismo ‘allargato’, ed è ora euristicamente molto più fruttuoso del realismo ‘ristretto’ di un Boccaccio.
Quanto sin qui affermato ci spinge intanto a un primo corollario. Le modalità e le gradazioni del realismo possono essere riscontrate indipendentemente dai generi praticati: pure nell’ambito della cosiddetta narrativa di consumo (romanzo poliziesco, fantascientifico, storico ecc.), si può ottenere un livello significativo di realismo, a patto di rendere gnoseologicamente attivi quelli che altrimenti risultano solo ‘attrattori facili’, a cominciare dalla creazione di un décor pseudo-realistico o para-realistico e viceversa mera ricomposizione di tasselli sclerotizzati. Nessun giudizio di valore può certo essere espresso per ‘razzismo di genere’, ma d’altra parte si possono e si devono evidenziare varianti meno ricche e dense cognitivamente, per esempio quelle in cui domina il cronachistico non rielaborato o che lambiscono il fantasy per banali motivi di captatio benevolentiae lectoris.
[1] Per un panorama d’insieme, cfr. innanzitutto R. Luperini, L’allegoria del moderno, Roma, Editori Riuniti, 1990. Per una bibliografia generale sul tema del realismo, si vedano poi, di chi scrive, Romanzi di Finisterre. Narrazione della guerra e problemi del realismo, Roma, Carocci, 2000; Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna, Il Mulino, 2007 (anche per l’analisi di testi di Franchini, Genna, Lagioia e altri, che andrebbero a integrare quella qui affrontata): a essi si rinvierà implicitamente in varie parti del presente lavoro.
[2] Cfr. Wu Ming, New Italian Epic. Letteratura, sguardo obliquo, ritorno al futuro, Torino, Einaudi Stile Libero, 2009. Una mia recensione è uscita sul sito Carmilla (http://www.carmillaonline.com/archives/2009/02/002955.html) e ne riporto qui un passo che risulterà utile più avanti: “A un’analisi meno angolata di quella proposta […] si dovrebbe notare che la capacità di lettura del reale è oggi inversamente proporzionale al suo bisogno di creare mondi possibili totalmente alternativi rispetto a quello ‘di primo livello’. Lo sforzo, ovvero l’enfasi di restituire una visione ‘altra’, diventa difficilmente credibile quando il livello ideologico e quello narrativo si mescolano indistricabilmente, tanto da creare un effetto di continua stonatura (ben più forte della sovversione ‘nascosta’ di cui parla l’autore). È il problema di fondo di un tentativo come quello di Genna in Hitler: che è un libro troppo fuori della storia per poter essere letto come storico, e troppo affine a come vorremmo immaginare che è andata la storia per poter essere letto come epico (ossia come portatore di un discorso superiore alla cronaca dei singoli fatti). Wu Ming 1 approva almeno in parte il lavoro di Genna (che aveva dato prove senz’altro superiori in L’anno luce, Dies irae e soprattutto Medium), e non affronta qui il problema cruciale di leggerlo in parallelo rispetto al suo negativo, Le Benevole di Littell (peraltro da lui recensito sull’“Unità” nel 2007). In quest’ultimo, il rapporto con la tradizione risulta davvero attivo, perché l’intento non è quello di costruire un mondo intrinsecamente pre-giudicato (ovvero non libero), ma lascia invece fluttuare il giudizio etico sino alla quasi giustificazione del protagonista, che vive alcune esperienze tra le più estreme che possano toccare a un uomo, pur essendo in apparenza un normalissimo individuo, le cui patologie all’inizio risulterebbero del tutto compatibili con una vita banalissima. E invece, è proprio la richiesta di seguire il suo comportamento senza preconcetti a costringere il lettore a prendere atto delle cause intime, personali ma anche sociali e ideologiche, del generarsi del male. E in ciò si rimanda al modello tragico piuttosto che a quello epico, ma comunque con un risultato comparabile con quelli della più larga tradizione del nostro sapere”. In generale, per il dibattito sulla Nie si rimanda alle pagine di http://www.carmillaonline.com/archives/cat_new_italian_epic.html.
[3] Sull’ampio argomento, cfr. D.C. Dennett, Coscienza. Che cosa è (1991), trad. it. Milano, Rizzoli, 1993. Sulla nozione di inconscio cognitivo e in generale sugli attuali ambiti di ricerca cognitivista cfr. almeno M. Tomasello, Le origini culturali della cognizione umana (1999), trad. it. Bologna, Il Mulino, 2005. Più in generale, molto suggestivi sono gli spunti offerti dal dialogo fra Jean-Pierre Changeux e Paul Ricoeur in La natura e la regola (1998), trad. it. Milano, Cortina, 1999.
[4] F. Bertoni, Realismo e letteratura. Una storia possibile, Torino, Einaudi, 2007.
[5] Cfr. S. Žižek, La fragilità dell’assoluto (2000), trad. it. Massa, Transeuropa, 2007, specie pp. 22-46, 70 sgg.
[6] Su questi aspetti, dopo l’ormai classico G. Bateson, Mente e natura (1979), trad. it. Milano, Adelphi, 1984, si vedano almeno P. Lévy, Il virtuale (1995), trad. it. Milano, Cortina, 1997; A. Fabris (a c. di), Etica del virtuale, Milano, Vita & Pensiero, 2007, specie pp. 109-127; e G. Dioguardi, Le due realtà. Fattuale e virtuale nell’era della globalizzazione, Roma, Donzelli, 2009, anche per altra bibliografia.