L’Italia oggi: non solo una nazione
Un recente sondaggio della rivista “Nuovi Argomenti” proponeva vari spunti di riflessione sull’Italia in occasione del Centocinquantenario. Passata la fase puramente celebrativa, occorre adesso riflettere più attentamente su molti presupposti non più scontati e sulle possibili nuove frontiere culturali
Quando si parla di identità-patria-territorio ecc. spesso crediamo ancora di muoverci all’interno di concetti abbastanza stabili, definiti, concreti, e invece tocchiamo sempre più con evidenza i limiti della loro semantica. È chiaro per esempio che molte delle implicazioni che adesso ci sembrano ovvie sono il portato del movimento nazionalistico sette-ottocentesco, mentre dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi dovremmo semmai parlare di zone di influenza geo-economico-culturale: in questo senso, l’Italia attuale è uno strano mix di cultura tardo-cattolica e di ideologie varie, in genere tutte piuttosto fuori tempo (dal falso liberismo berlusconiano ai progressismi più o meno edulcorati alle frange estremiste).
È quindi molto difficile appassionarsi a un’idea d’Italia se non per questioni di nascita, di lingua e di tradizione culturale in senso lato. Ma il tratto unificante dell’evoluzione della nostra identità è stato, negli ultimi decenni (diciamo a partire dagli anni Ottanta), quello della sua scarsa coesione, della sua manchevolezza, sin dalle origini risorgimentali, del suo essere inutile per creare una solidarietà, tanto è vero che l’attuale scenario è proprio quello della ricerca di radici alternative, locali o regionali al massimo. La concretezza delle piccole patrie, ovvero dei luoghi della nascita e della vita vissuta, supera in appeal qualunque ideale elevato, come la collocazione dell’Italia in un contesto davvero europeo, dove invece potrebbe trovare una nuova dimensione, derivata da una tradizione nobile, più forte dei localismi.
In sostanza, direi che attualmente la domanda montaliana “tutto per nulla, dunque?” sintetizza il sentimento di un italiano che si sia adoperato e si adoperi nel combattere le logiche di potere ancora in gran parte vigenti, se non altro perché portano al continuo disprezzo per la giustizia e la legalità a favore del nostro genus più duraturo, quello dell’astuzia che trionfa anche a scapito della correttezza e del rispetto civile. Ecco, davvero non si sente adesso la possibilità di usare il termine ‘civiltà’ per l’Italia, l’unico che forse potrebbe sostituire i troppi ormai vuoti o abusati.
Di fatto, attualmente noi non abbiamo una vera identità nazionale, abbiamo molte realtà locali scarsamente comunicanti al di fuori di territori più o meno ristretti, e non abbiamo modo di pensare all’Europa se non in termini generici, più che altro economico-politici. Si potrebbe ipotizzare che il movimento verso un’integrazione europea sia necessario e inevitabile, ma personalmente non sarei affatto sicuro che ciò avvenga. È palmare la differenza fra l’Unione europea attuale e una federazione come quella degli Stati Uniti che, dopo divisioni anche asprissime, si unisce per alcuni obiettivi condivisi (l’espansione della propria supremazia ai danni di poteri contrapposti, prima il comunismo e ora i fondamentalismi). In realtà, l’Europa ragiona per ora in termini difensivi, prioritariamente in ambito economico-monetario, mentre nell’immaginario collettivo non emergono ideali comuni.
È allora molto più facile surrogare l’apertura culturale, il confronto con altre civiltà, la creazione di nuove idee forti sul futuro, che purtroppo dobbiamo reinventarci, con piccole e a volte meschine vanaglorie locali, spacciate come ‘identità’: il rispetto della tradizione non sta nell’essere passivamente (o convenientemente) tradizionalisti, bensì nel ritrovare i motivi profondi che hanno generato una forma culturale condivisa, per proporli in modi adatti ai nuovi tempi e alle nuove condizioni sociali. Viceversa, movimenti politici adesso fortissimi, al Nord ma anche al Sud, non hanno creato nessuna nuova cultura, se non quella dell’ostracismo e dell’opportunismo, con l’italicissima capacità di fare affari con tutti e su tutto, purché in maniera illecita. Roma forse è un po’ meno ladrona perché molti soldi sono stati rubati alla fonte.
Per fare un esempio concreto: quando mai si riesce, ancora adesso, dopo decenni di iniziative nate un po’ in tutti i comuni almeno di medie dimensioni, a pensare a progetti economici o a attività culturali durature che uniscano con efficacia microrealtà diverse fra di loro, per avere nuove prospettive? Il localismo splendido del Quattro-Cinquecento è insieme la nostra forza e la nostra condanna attuale: ma recentemente solo condanna, direi, visto che negli ultimi decenni sono state bruciate molte risorse in progettini ed eventini, ma pochissime sono state le occasioni di pensare in grande, acquisendo un respiro davvero europeo, primo passo per assumere un’‘identità’ all’altezza dei tempi.
Si debbono poi affrontare addirittura aspetti antropologici. Dobbiamo chiederci: quanto l’orgoglio patrio o l’azione di sportivi o di squadre nazionali italiane corrispondono a un retaggio di ‘masse’ (iuxta Canetti), di gruppi che dovevano lottare per imporsi e per stare uniti? Quanto dipende dal desiderio di rivalsa, frutto ancora delle lunghe fasi di lotta che hanno scandito la storia europea e poi mondiale tra Otto e Novecento? Tutto questo corrisponde poco a un vero sentimento ‘identitario’, se non appunto come ‘distinzione dagli altri’: ma questo è stato uno dei princìpi dei nazionalismi, e in genere non ha portato molto bene.
D’altra parte è innegabile che gli eventi ‘nazionali’ chiamano a una partecipazione, per ritrovare una superiorità che, nella vita di ogni giorno, ormai certo nessun italiano può provare se si confronta con le altre nazioni europee e con molte di quelle di tutto il mondo. Si tratta di movimenti di riscatto, di autoesaltazione, ma spesso non sono legati se non a fasi del tutto transitorie. More italico, in genere abbiamo in scarsissima considerazione la lunga durata e soprattutto evitiamo di considerare sino in fondo le implicazioni delle nostre azioni.
Mi permetto qui di inserire una parte di un mio testo, Il compiersi della vittoria, che parte proprio da riflessioni di questo tipo, tra euforia della vittoria (poco dopo il 2006 e molto prima del 2010) e tentativo di capire (con l’aiuto di Leopardi) cosa significa davvero, per le biologie e le culture odierne, il vincere:
Ma perché si dovrebbe parlare ancora in cerimonia
a una nazione che si limita a osservare,
a un angolo di mondo che sarà coperto
dal nascere e dal completarsi
dei cicli dei popoli e delle cose?
Guardavo il ragazzo dalle pelle butterata
alzare la coppa di polistirolo verniciato
d’oro, mentre migliaia di migliaia cantavano
nella notte: siamo i campioni del mondo. E
il sentimento della morte si allontanava
dai corpi al loro apice, certi del
proseguire dopo la vittoria, non più
cinici, come da sempre tutte le classi
italiane, ora unite qui, in un gesto
semplice e assurdo, un’onda collettiva
un saltare totale, per un attimo
felici.
Piuttosto, va aggiunto, sarebbe davvero ora di proporre studi seri sulla cosiddetta ‘creatività italiana’, che ancora ci contraddistingue all’estero, e forse è il frutto tipico di un lungo processo di adattamento per la sopravvivenza, a tutti i livelli, anche quello culturale e artistico.
Tornando agli assunti fondativi, certamente la condivisione linguistica è stata la prima causa di aggregazione nelle epoche antiche. Se abbiamo una base comune europea, come già notava Eliot, la dobbiamo alla lunga fase della latinità e quindi del latino come ‘lingua universale’: che era tale, però, dopo una conquista militare e per garantire una supremazia.
Dunque, la lingua è un elemento di identificazione e di unione, ma di per sé non è sufficiente a creare un’identità nazionale (con tutte le riserve che ho sopra espresso su questo concetto). L’identità si crea grazie a imprese fondative (i momenti epici delle varie storie nazionali), a un lavoro comune (il senso dell’operare anche per gli altri), a grandi opere condivise, a cominciare da quelle letterarie e artistiche.
La lingua, in Italia peraltro ancora estremamente variegata nelle sue espressioni regionali, dovrebbe quindi essere un fattore di autoconsapevolezza, ma non certo un ostacolo all’apertura verso gli altri. La traduzione, più ancora del mero dialogo, come ha detto Paul Ricoeur, è il vero mezzo per accorgersi del sé come altro, degli aspetti che sono comuni a coloro che parlano italiano così come a qualunque altro essere umano. Le varietà linguistico-culturali non dovrebbero insomma dare luogo a un’idea identitaria fondata sulla chiusura, bensì a una continua traslazione dall’io-noi di una nazione al tu-voi di tutte le altre.
Per quanto detto sinora, in generale non credo che esista un ‘carattere nazionale’: esistono insiemi di fattori, storici-linguistici-culturali, che creano delle aggregazioni più o meno forti, più o meno durature. Nelle varie epoche, sono state in genere esaltate le differenze tra nazioni, per motivi difensivi o offensivi in campo politico-militare, poi economico in senso capitalistico. Il concetto di nazione è stato utile in determinati momenti per superare vincoli localistici eccessivi, ma ha prodotto guerre che ora ci sembrano del tutto orrende.
A fronte di tutto questo, da tempo esistono proiezioni verso il cosmopolitismo, l’affinità culturale mondiale, e in particolare verso la Weltliteratur: è davvero gratificante lo scoprire che ci sono importanti intellettuali di tutto il mondo (da Heaney a Walcott a Oe, per citarne solo alcuni) che indicano in Dante un loro modello, al di là delle differenze di cultura nazionale. Si tratta però di concetti troppo lontani dalla prassi, dalla pesantezza del vivere quotidiano, che per forza risente dell’andamento complessivo dello Stato in cui si vive. Potrei dire che oggi l’italianità, qualunque sia la sua essenza, non la viviamo, la subiamo.
Ecco perché, in questo momento, gran parte degli intellettuali italiani più attivi sono impegnati in un’opera di riscatto: dare una spiegazione ai tanti misteri della nostra politica, una visibilità alle storture, una risposta alle ingiustizie è forse l’atteggiamento più italiano che ora ci resti. Ma si tratta di un’opera difensiva, che mira a portare il nostro apparato politico-burocratico-giudiziario almeno a uno stadio di dignità, ormai perduta a livello di sistema (i singoli, in questo caso, subiscono appunto la condizione comune).
Ora più che mai gli intellettuali dovrebbero anche produrre uno sforzo per proporre una visione diversa dell’Italia, per indicare prospettive inedite, possibilmente pensando a un destino comune assieme alle grandi nazioni europee. Dovrebbero ripensare ai motivi della grandezza duratura di un Dante, di un Michelangelo, di un Galileo o di un genio universale come Leonardo: ripensare senza però procedere ancora sulla scorta di uno stanco storicismo, che è uno dei limiti più forti dell’accademia italiana oggi, e senza nemmeno continuare a rimanere ancorati a dimensioni culturali già superate (le tarde ideologie novecentesche, i cascami della psicanalisi ecc.). Si tratta di delineare un’idea di Italia che sia innanzitutto contro le ristrettezze politico-localistiche, contro la paura del nuovo e l’ideologia dell’innovazione senza novità, contro i residui di un umanesimo di facciata e a favore di un umanesimo profondo. Tutto questo dovrebbe partire dalla scuola e dall’università, che proprio nel momento di loro maggiore crisi dovrebbero trovare la forza di pensare a nuovi contenuti, a nuove forme di lettura della cultura italiana nel suo insieme. È lì che potrebbero nascere nuove idee politiche oltre che artistiche: e da lì potrebbe nascere anche una nuova cultura comune, che superi le due grandi ‘idee vigenti’ attuali, il particolarismo e il godimento del presente. Forse questo ampio sforzo contribuirebbe a formare un ‘carattere italiano’ riconoscibile in tutto il mondo per affinità e non per differenza negativa.
Concludendo, se si nasce in Italia, attualmente ci si dovrebbe soprattutto impegnare a non essere italiani di oggi, per diventare italiani-in-Europa (e nel mondo) domani.